martedì 17 ottobre 2017

Loving Vincent: un giallo a colpi di giallo

La locandina del film, nelle sale esclusivamente dal 16 al 18 ottobre 2017
Se dovessi descrivere Loving Vincent con una sola parola, direi "giallo". Ciò potrebbe risultare banale e semplicistico, tuttavia il giallo è davvero il tema dominante durante i 94 minuti di film accompagnati dalle azzeccatissime musiche di Clint Mansell. E non mi riferisco solo ai cromatismi, ma anche alla narrazione, dato che la trama di questo spettacolare lungometraggio, che attraverso numerosi flashback in bianco e nero ripercorre la vita di Vincent van Gogh, rievoca gli ultimi anni del pittore olandese e affronta, a mo' di thriller, la ricostruzione della sua controversa morte.
Il tutto raccontato mediante la realizzazione di oltre mille dipinti che, susseguendosi in più di 65.000 fotogrammi e mescolandosi alla tecnica rotoscope, esaltano la travagliata esistenza e lo stile inconfondibile di uno dei più celebri e discussi post-impressionisti della storia dell'arte.
I colori vividi e le pennellate dense dipingono la vicenda, ambientata perlopiù in Francia nel 1891, a un anno di distanza dalla morte di van Gogh. Armand Roulin, figlio del postino che aveva gestito la corrispondenza tra i fratelli Vincent e Theo van Gogh (dei quali il carteggio sarà pubblicato dalla moglie di quest'ultimo nel 1914), viene incaricato dal padre di consegnare l'ultima lettera dell'artista al fratello, collezionista e antiquario.
Il legame tra Vincent e Theo è fortissimo, testimoniato da uno scambio di missive a dir poco febbrile e dalle espressioni ricche di amore contenute nelle medesime (tanto che il titolo del film richiama proprio la consueta, tenera firma del pittore: «Con affetto, Vincent»).
Ciò che rende indissolubile la relazione tra i fratelli van Gogh non è solo una questione "di sangue"; Vincent e Theo sono legati anche da una sorta di rapporto professionale informale, cioè privo di contratto, ai sensi del quale Theo finanzia il fratello più anziano. Egli sostiene le spese di pennelli, tele e colori per la realizzazione dei dipinti di Vincent, e ne promuove le opere, cercando di pubblicizzarle tra i commercianti d'arte, senza tuttavia riscuotere il successo sperato. Degli oltre 800 quadri realizzati da Vincent in otto anni di attività (dato che l'artista olandese si avvicinò all'arte "pratica", e non meramente commerciale, solo a 28 anni), venne venduto un solo dipinto prima del suo decesso.
Armand Roulin, ragazzo intraprendente del quale spicca la giacca gialla che, tra le strade sterrate o tra i campi di grano o sotto le stelle luminose, richiama la passione di Vincent per i colori caldi o per i decisi contrasti tra le sfumature paglierine e le tonalità più scure, ripercorre i luoghi attraversati dall'artista di Zundert, incontrando personaggi che risulteranno determinanti al fine di ricostruire non solo la vita, ma anche la personalità del pittore.
I personaggi del film, ritratti attraverso la tecnica rotoscope
Ciascun soggetto interpellato dal giovane Roulin racconta il suo rapporto con Vincent, delineando a volte un'indole scontrosa, riottosa e bizzarra, altre una personalità dolce, mansueta e straordinariamente sensibile.
Solo la solitudine sembra essere il tratto comune in tutte le descrizioni, dalle quali emergono una disperata ricerca di affetto e l'incapacità di comunicare con il mondo, se non attraverso le sue opere; è come se i dipinti di van Gogh fossero l'unico modo per esprimere i suoi sentimenti alla società.
Durante i vari incontri e colloqui tra Armand Roulin e gli altri personaggi, balzano agli occhi del pubblico quei brevissimi momenti, quei pochissimi secondi, in cui i registi Dorota Kobiela e Hugh Welchman "rallentano" lo scorrimento delle immagini e dei fotogrammi per concedere allo spettatore di focalizzare, in quel determinato istante, i celebri capolavori dell'artista olandese. Tra i tanti notevoli spunti artistici spiccano, all'inizio del film, lo Zuavo e, verso la fine, l'ancor più famoso Ritratto del dottor Gachet; giusto un paio di secondi in cui il lungometraggio abbandona lo spazio e il tempo per immortalare una delle opere più famose di van Gogh, nella quale
Un frammento del film raffigurante il colloquio tra il dottor Gachet e Armand
lo psichiatra viene raffigurato seduto, a mezzobusto, con il capo leggermente inclinato. In esso spicca uno sguardo malinconico, assorto e circondato dalle pennellate pastose e accese, attraverso le quali il volto, le mani e i libri rigorosamente gialli contrastano con la giacca e le colline bluastre sullo sfondo, ravvivavate da brevi tratti più chiari. Se al posto della pianta di digitale (che si può intravedere lungo il lato sinistro del frame) ci fossero stati dei girasoli, si sarebbe potuto affermare che in questo ritratto, dai colori alle sfumature, dall'espressività all'inquietudine, c'è tutto Vincent van Gogh.
Trovo che questo film sia un grande atto d'amore e di giustizia nei confronti di un autore vessato, travagliato e fortemente incompreso; un rivoluzionario e un anticonformista costretto, dalla malattia e dalla società, a cercare e trovare (parzialmente) rifugio nella sua arte.
E come tutti i rivoluzionari, come tutti gli anticonformisti (da Dante a Galileo, da Spinoza a Kafka...), van Gogh è destinato a vedere la sua anima, le sue idee, la sua poetica disprezzate dai suoi contemporanei e apprezzate dalle generazioni successive. Un errore cui la società presente, passata e futura non riuscirà mai a porre rimedio.

martedì 20 giugno 2017

L'insostenibile leggerezza dell'informare (ovvero quando notizie pesanti come elefanti vengono ridotte a topolini)

Oggi, leggendo la home page del Corriere della Sera, ho voluto provare a concentrami sulla rilevanza data dalla testata milanese alle notizie provenienti dall’Italia e dal mondo.
Potrei essere smentito riguardo la qualità del quotidiano in questione, ma tutto sommato penso che il Corriere sia uno dei giornali più affidabili nel panorama informativo italiano. Ed è per questo motivo che non riesco a spiegarmi come (da un punto di vista internazionale) l’intervista allo scrittore anglo-pakistano Hanif Kureishi sui fatti di Londra e (da un punto di vista nazionale) la protesta dei ricercatori scatenatasi a Milano a causa della loro precarietà lavorativa possano essere surclassate e inserite nella prima pagina del sito Internet ufficiale dopo notizie come il “Royal Ascot” (la gara inglese di cavalli e cappelli), la bambina cinese con la testa incastrata nella ringhiera (per cui l’80% dei bambini avrebbe meritato la copertina almeno una volta nel corso dell’infanzia), il monito circa i potenziali danni podologici delle infradito, l’elefantino che rischia di annegare (ma grazie al cielo mamma e papà corrono a salvarlo), i chilogrammi persi da Jonah Hill (che non si sa chi cazzo sia) o la “rivolta social” causata dall’eliminazione del trio di concorrenti di “Reazione a Catena” su Rai 1 (tali sono le rivoluzioni cui ci siamo ridotti).
Mediante questo tipo di impostazione telematica e visiva, è evidente che le considerazioni di Kureishi circa «un grande pericolo di disordini sociali» in una città multiculturale come Londra e non solo (ovviamente in seguito all’attentato alla moschea di Finsbury Park e alla grettezza divulgativa dei media e dei tabloid britannici), passino in secondo piano.
Allo stesso modo, un’altra notizia posta in primo piano, che rivela il deprecabile gesto di un assessore caltagironese di abbandonare dei cuccioli in una zona della città, fa giustamente indispettire ma, nel contempo, distrae dalla protesta di mille ricercatori di alcuni noti ospedali italiani che rischiano il posto per effetto del Jobs act (medici, biologi, farmacisti, chimici che un domani potrebbero salvarci la pelle).
Ecco, se la cronaca dev’essere veridica, continente, pertinente e soprattutto oggettiva, penso che anche la scelta delle notizie, nonché l’attribuzione ad esse di una maggiore o minore importanza, debba essere oggettiva.
Anche perché il fatto che la piattaforma informatica non richieda quell’oculata scelta di notizie imposta dall’utilizzo parsimonioso della carta stampata, non giustifica l’inserimento in primo piano di chiacchiere da ombrellone, atte a suscitare quel grado di indignazione che oscilla tra lo sdegno per le pacchianerie targate Icardi-Wanda Nara e la collera per il mancato rinnovo contrattuale di Donnarumma. 


domenica 28 maggio 2017

G7 a Taormina: le pagelle semiserie del summit



Ieri si è concluso il G7 a Taormina, ovvero l’incontro tra le sette principali economie mondiali, per discutere dei cinque maggiori problemi che attualmente attanagliano il pianeta: il cambiamento climatico, il terrorismo, l’immigrazione, il commercio internazionale e se è più corretto dire “arancino” o “arancina”.
Assodato che la discussione sull’ultimo tema ha assorbito la maggior parte del tempo (perché dài, a gente che ha il mondo ai propri piedi, di orsi polari, psicopatici integralisti e morti di fame interessa relativamente), ecco, per chi non avesse avuto l’occasione di seguire il summit, le pagelle riassuntive delle prestazioni fornite dai protagonisti del vertice.

Theresa May (Primo Ministro del Regno Unito – Partito Conservatore) – voto 6: una volta appurata l’assenza di qualsiasi parentela con il più famoso chitarrista dei Queen, Theresa May perde completamente di interesse anche solo per gli autografi. Il fatto che sia l’unica donna tra i sette leader coinvolti, la dice lunga sul livello di civiltà raggiunto dall’umanità. Alla fine palesa tutta la sua indecisione riguardo la Brexit sputando in faccia al presidente della Commissione europea Juncker per poi offrirgli un fazzoletto, il quale, però, zeppo di muco, sancisce definitivamente il suo euroscetticismo.

Justin Trudeau (Primo Ministro del Canada – Partito Liberale) – voto 6,5: nonostante debba la sua celebrità al fatto che sappia sostenersi con le braccia sulla scrivania dell’ufficio più che alle sue effettive competenze politiche, il primo ministro canadese si presenta in sala stampa per trattare i principali temi in agenda, dal multiculturalismo al terrorismo, dall’ambiente alla collaborazione tra Stati, esprimendosi sia in inglese che in francese, ammiccando ovunque e tirandosela da Taormina ad Ottawa. Peccato che, proprio per il fatto di essere il primo ministro del Canada, se lo cagano solo i gabbiani.

Emmanuel Macron (Presidente della Repubblica francese – Partito politico "En Marche!) – voto 7: il neo-presidente della Repubblica coglie l'occasione per sottolineare l'importanza dell'incontro al fine di "evitare di limitare i progressi dell'accordo di Parigi o di mettere in luce disaccordi troppo profondi". A tal proposito, prima del termine del summit, nonostante la proverbiale “puzza sotto il naso” che contraddistingue i leader mondiali (figuriamoci se sono francesi!), vince la sua superbia e, per dimostrare l’interesse transalpino alla questione ambientale, offre a Trump una fetta di cassata; dopodiché, cingendogli il fianco, conclude: “Oltre alla fauna artica, la Francia è sensibile anche alla salvaguardia degli orsi bruni americani, nonostante la loro aggressività e il loro odore piuttosto acre”.

Shinzo Abe (Primo Ministro del Giappone – Partito Liberal Democratico) – voto 7,5: forte dello sviluppo tecnologico del suo Stato (dove il cesso ha più pulsanti del telecomando e ogni volta che defechi è come fare un viaggio sull’Enterprise di Star Trek), il primo ministro giapponese si limita ad ascoltare pacatamente gli altri leader internazionali, domandandosi come facciano Merkel e Macron a non avere manco il bidet. Conclude il soggiorno siciliano addentando un arancino e sentenziando: “Questo sushi fa davvero cagare”. Va premiata l’onestà con cui rivela a Gentiloni di essere finito lì solo perché il software del suo Pokemon Go era andato a puttane.

Angela Merkel (Cancelliera federale della Germania – Unione Cristiano-Democratica) – voto 5,5: panzer tedesco pronto a tramutarsi in “mamma o suocera d’Europa” e viceversa, il Transformer di Berlino sbarca a Taormina con la consapevolezza di chi sa che, ritrovandosi geo-politicamente nel cuore del Vecchio Continente ed economicamente nel portafoglio dello stesso, può fare un po’ quel cazzo che vuole, con un occhio di riguardo per il suo popolo. I toni sono pacati, il pensiero è moderato, lo stile estetico e linguistico è composto da tante “sfumature di grigio”; e nonostante, come il tizio del libro, molti abitanti del Mediterraneo vorrebbero frustarla a dovere (soprattutto i greci), la cancelliera mantiene comunque un notevole consenso anche fuori dai confini tedeschi, chiacchierando un po’ con tutti, senza tuttavia badare a nessuno, perfettamente in linea con la storia politica cristiano-democratica. Rinuncia alla conferenza stampa, strafogandosi di cannoli dal teatro antico fino all’aeroporto, farfugliando qualcosa come: “Mi dispiace, ma è maleducazione parlare con la bocca piena.”

Donald J. Trump (Presidente degli Stati Uniti d’America – Partito Repubblicano) – voto 4: è sicuramente il leader più chiacchierato tra i sette presenti: imprenditore senza scrupoli, donnaiolo dalla capigliatura improbabile, miliardario eccentrico, boss nel settore edile (e non solo), sceso in campo più per garantire i propri interessi che per un effettivo senso civico… Insomma, un personaggio che può essere capito solo se si è italiani. Trump giunge a Taormina con un biglietto da visita niente male: populista, xenofobo, nazionalista, militarista, protezionista, misogino, nonché ideatore del famoso muro lungo il confine con il Messico; insomma, vederlo alla guida della “più grande democrazia del mondo” è come vedere Gandhi alla guida dell’Isis… C’è qualcosa che non va. Ma Donald non si perde d’animo e, attaccando dialetticamente la Germania per le sue politiche commerciali e pensando: “Prima o poi vi bombarderò tutti, a partire dal giapponese che assomiglia un po’ troppo a Kim Jong-un e la cosa non mi piace…”, è l’unico a ribadire con forza il suo scostamento dall’accordo di Parigi sul clima, sostenendo che se non ci sarà più ghiaccio, si limiterà a non bere più mojito. Anche lui non presenzia alla conferenza stampa, giacché al solo pensiero di qualche domanda sullo scandalo del “Russiagate”, le mutande cominciano a puzzargli più di una latrina a Guantànamo.

Paolo Gentiloni (Presidente del Consiglio italiano – Partito Democratico) – voto 6: tutti lo scambiano per il capo-sala o per quello del guardaroba o per quello de: “La toilette è in fondo a destra”. Si capisce essere il premier italiano solo quando prende la parola per quaranta minuti, mentre dalla platea il primo ministro giapponese prova a catturarlo, pensando sia un nuovo esemplare di Pokemon-noia. Con l’entusiasmo e la briosità di uno che è in sala d’attesa per una colonscopia, Gentiloni “apre le danze” sottolineando come la splendida cornice di Taormina possa “aiutare a dare risposte a quello che i cittadini oggi ci chiedono sul terrorismo e la sicurezza innanzitutto”, e sperando in cuor suo che Taormina abbia studiato. Nel tardo pomeriggio di sabato, deluso per non essere riuscito ad avere manco il numero di cellulare di quel figone di Melania Trump, lo sconsolato premier conclude il summit con la consueta vivacità, manifestando una fiducia nel futuro tale da convincere la maggior parte dei giovani presenti ad avviare alcune start-up di corde spesse e cappi belli stretti. Strappa la sufficienza per non essere incappato in una di quelle gaffe che negli ultimi vent’anni ci ha reso celebri agli occhi del mondo.

martedì 25 aprile 2017

Breve dialogo sulla Liberazione

- Ti è mai capitato di avere un forte mal di pancia dopo una grande abbuffata, magari di hamburger da McDonald?

- Beh ovvio, a chi non è successo?! A chi non è capitata quella fame chimica all'una di notte e gli hamburger ad un euro, semplici, a portata di mano, con quella loro salsina deliziosa, e gli ultimi dieci euro belli pronti nel portafoglio!

- E la mattina seguente come sei stato?

- Beh volevo morire. Pallore da salmonellosi, crampi alla pancia e stomaco che brontolava. Quegli hamburger gustosi e ammalianti avevano inizialmente causato un piacevole rilascio di endorfine, per poi tradire la mia fiducia e aggredire il mio organismo.

- E poi?

- E poi, dopo qualche ora di agonia e qualche litro di brodaglie varie, ho cacato come se non ci fosse un domani e mi sono sentito leggero e felice, libero da tutta quella monnezza che la pubblicità ci propina come spuntino veloce e sfizioso. E adesso, ogni volta che vedo un Burger King o anche solo un qualsiasi fast food del cazzo, mi viene il voltastomaco. Ma con ciò, cosa vorresti dire?

- Voglio dire che se gli americani hanno scelto il BigMacPork&Beans più patitine doppia frittura, spero che il 7 maggio i francesi preferiscano l’insalata. Perché cambiano le generazioni, magari anche gli “ingredienti”, ma i “fast food” restano comunque e ovunque una merda.

lunedì 27 febbraio 2017

Eutanasia: un fenomeno attuale, ma ancora poco conosciuto e mal disciplinato

Talvolta il destino o Dio o la natura, secondo la visione di ciascuno, possono catapultare l’essere umano in una condizione fisica e psichica tale da non permettergli più di proseguire la sua esistenza serenamente e dignitosamente, tale da fargli balenare nella mente l’idea per cui un determinato tipo di vita non è vita e quindi non vale la pena di essere vissuta, tale da fargli desiderare la morte. Lo stesso Seneca scrisse a Lucilio: “Non rinuncerò alla vecchiezza se essa mi lascerà intero a me stesso, dico intero nella parte migliore; ma se comincerà a scuotere la mia mente, a schiantarne delle parti, se mi lascerà non la vera vita, ma solo una forza animatrice di vitalità organica, senz’altro me ne uscirò da quell’edificio interiormente viziato e destinato a rovinare. Non cercherò con la morte di fuggire una malattia purché si tratti di una malattia da cui possa guarire e il mio intelletto non venga deteriorato. Non volgerò le mani contro me stesso per fuggire il dolore: in questo caso darsi la morte significa essere vinti. Ma quando saprò di dover soffrire condannato a un dolore senza fine, allora uscirò dalla vita non per fuggire il dolore, ma perché esso sarà d’impedimento a tutte quelle cose che costituiscono la ragione di vivere.
Spesso in queste drammatiche situazioni si giunge, purtroppo, ad un punto in cui parenti, coniugi e amici (vale a dire quelle figure che abitualmente ispirano conforto, fiducia e amore) non sono più in grado di risollevare lo spirito e ridonare la gioia di vivere a persone gravemente malate, costrette perennemente a letto, incapaci di badare a se stesse e di possedere anche una minima autonomia; non è raro che queste stesse persone siano obbligate a vivere con l’ausilio di macchine ed apparecchi che permettono loro di sopravvivere, fornendo nutrizione, idratazione e ventilazione artificiali, come polmoni d’acciaio o sondini naso-gastrici; e non è raro che queste stesse persone versino in una condizione di immobilità e incapacità talmente gravi da far desiderare loro di morire senza che possano, tuttavia, procedere all’atto materiale del suicidio.
Ed è qui che si invoca la pietà, che si esige il rispetto della propria dignità (così fortemente tutelata dal capo I della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea e in particolar modo dall’art.1 della Carta stessa) e che si chiede, tristemente, l’aiuto di “una mano amica” per ricevere la dose letale di morfina o per spegnere il macchinario vitale, uscendo (come scrisse lucidamente il filosofo romano nel I secolo d.C.) “da quell’edificio interiormente viziato e destinato a rovinare”.
Come agire, dunque, in queste situazioni? Cosa fare nei casi in cui un individuo gravemente malato, lacerato da sofferenze insopportabili sia a livello fisico che psichico, ma incapace di suicidarsi, desideri, piuttosto che continuare a vivere una vita per lui non più decorosa, ricevere una morte dignitosa attraverso mezzi giuridicamente leciti?
Qui fa il suo ingresso il biodiritto, quel ramo giuridico definito da Scarpelli come il diritto relativo ai fenomeni della vita organica del corpo, della generazione, dello sviluppo, maturità e vecchiaia, della salute, della malattia e della morte; e la disciplina del fine-vita (così come molti altri ambiti della bioetica e della biomedicina) rientra pienamente in questo settore. Vivendo in uno stato di diritto, in cui le leggi regolano e normalizzano la vita di ciascuno, con lo scopo di tutelare i diritti e far rispettare i doveri di ogni cittadino, è bene essere informati sul modo in cui l’ordinamento italiano disciplina il delicato tema del fine-vita.
Considerando la fondamentale importanza e prevalenza gerarchica della Costituzione su qualsiasi altro tipo di legge ordinaria partorita dal Parlamento, e richiamando in particolar modo il diritto alla salute sancito dall’articolo 32 della Carta costituzionale (per cui “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti” e per cui “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge” – come nel caso dei vaccini obbligatori – e ancora “La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”), la disciplina delle situazioni di fine-vita risulta essere ancora troppo oscura e confusa, violando talvolta principi imprescindibili come l’eguaglianza (tutelata dall’art.3 della Costituzione), la ragionevolezza e la non-contraddizione delle norme.
Dopo casi giuridicamente rilevanti e mediaticamente clamorosi come i vari Welby, Nuvoli ed Englaro, capaci di scuotere dal torpore dell’indifferenza sia le maggiori rappresentanze laiche e politiche che quelle religiose, il Legislatore italiano ha provato a fare un po’ d’ordine dando vita ad un disegno di legge (intitolato “Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento”, ma meglio conosciuto come ddl Calabrò, bocciato e abbandonato dal Parlamento al termine dell'ultimo governo Berlusconi) incapace, tuttavia, di disciplinare efficacemente questo tema assai delicato (direttamente collegato alle dichiarazioni –prima direttive– anticipate di trattamento da esso regolate), ma riuscendo comunque nell’intento di fissare dei paletti ben precisi circa le pratiche vietate e penalmente perseguibili nel caso in cui il paziente infermo avesse invocato l’eutanasia nelle forme dell’assistenza al suicidio e dell’omicidio del consenziente (come dimostra l’art.1, lettera c del suddetto progetto di legge).
Infatti esistono sostanzialmente tre modi attraverso i quali un malato, affetto da patologie gravi e non più sopportabili che ad esempio possono colpire il sistema nervoso (e quindi anche la mobilità), può ottenere ciò che per lui è liberazione tramite la morte:
1. il rifiuto, qualora ne sia sottoposto, dei trattamenti sanitari vitali (nutrizione, idratazione e respirazione artificiali);
2. l’assistenza al suicidio;
3. l’omicidio del consenziente.
Tuttavia, a differenza del primo metodo, ritenuto essenzialmente legittimo ed anzi tutelato dallo strumento giuridico più rigido e sicuro possibile (la Costituzione, ex articolo 32), gli altri due, come detto, non solo non sono tutelati dall’ordinamento, ma anzi sono puniti attraverso lo strumento più coercitivo e repressivo possibile qual è la sanzione penale: assistenza al suicidio e omicidio del consenziente sono infatti puniti con la reclusione, come espressamente previsto dagli articoli 580 e 579 del nostro codice penale.
Inoltre, ricercando una disperata difesa assoluta della vita (e, per certi versi, folle nel tentare di azzerare l’autodeterminazione e il volere del paziente in favore di un’esistenza forzata, rendendolo così un mero “strumento” utile a preservare un bene astratto com’è la vita), il ddl Calabrò prevede anche un’incomprensibile riduzione del primo metodo, affermando all’art.3, comma 5 che “alimentazione e idratazione [...] devono essere mantenute fino al termine della vita” e che “non possono formare oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento”, sostenendo implicitamente come esse non siano quindi considerate trattamenti sanitari (e quindi beni disponibili, soggetti ad un eventuale rifiuto del paziente, come evidenzia l’art.32 Cost.), bensì azioni fisiologicamente dovute che il malato deve subire fino a che un medico non decreterà un eventuale accanimento diagnostico-terapeutico (come indica l’art.16 del Codice di deontologia medica).
L’autodeterminazione del paziente risulta così ulteriormente ristretta, e nonostante la delicatezza e il carattere indubbiamente etico e personalissimo della scelta riguardo la prosecuzione della propria vita, tale legge sembra cedere questa stessa scelta ad una figura terza (il medico), sicuramente preparata nel settore, ma altrettanto sicuramente dotata di una morale e di una concezione della vita del tutto personale e spesso diversa da quella del malato in questione.
Qualche domanda sorge spontanea: perché un paziente che ha scelto come vivere, non può scegliere come morire, soprattutto in casi di estrema sofferenza e dolore? Perché si tutela così fortemente la vita, a prescindere da come viene vissuta e dalla volontà del malato di continuare o meno a viverla? Perché, ai sensi del ddl Calabrò, un paziente, la cui vita è legata ad un respiratore artificiale, può scegliere ed ha il diritto di morire chiedendo lo spegnimento di tale macchina, mentre un altro paziente, la cui vita è appesa ad un alimentatore mediante sondino naso-gastrico oppure è immobilizzato a causa di una grave malattia che, tuttavia, non lo obbliga a respirare tramite un ventilatore meccanico, non può scegliere di morire o farsi aiutare a morire, ed anzi ha il dovere di rimanere in vita? Su cosa si basa questa palese violazione dei principi di eguaglianza e libertà personale, sanciti dagli articoli 3 e 13, comma 1 della nostra Costituzione?
Le risposte date sino ad ora sono tre e contraddistinguono i cosiddetti modelli a tendenza impositiva (o “chiusi”), solitamente caratterizzati dalla tutela giuridica del diritto del paziente al rifiuto dei trattamenti sanitari (anche se su questo punto l’Italia, con il ddl Calabrò, dimostra di essere più “chiusa” di altri sistemi, come quello statunitense o britannico, in cui idratazione e nutrizione artificiali sono trattamenti sanitari rifiutabili) e dal divieto penale dell’omicidio del consenziente e dell’assistenza al suicidio.
Queste tre risposte, come ampiamente argomentato da C. Casonato in Introduzione al biodiritto, sono: 1) il carattere sacro ed indisponibile della vita, per cui tale bene appartiene a Dio, e solo Dio e non un medico o un individuo qualsiasi può sottrarlo al paziente (e nemmeno il paziente stesso); 2) il pericolo che la classe medica, abitualmente identificata come curatrice di malattie e “portatrice di vita”, possa essere etichettata come “donatrice di morte”, in quanto spetterebbe ad essa il gravoso compito di prescrivere o iniettare al malato la sostanza letale da lui richiesta per passare a miglior vita; 3) il fenomeno della slippery slope, la cosiddetta “china scivolosa”, secondo cui un’eventuale legittimazione dell’eutanasia attiva diretta ed indiretta (omicidio del consenziente e suicidio assistito) porterebbe ad un inarrestabile abuso delle pratiche eutanasiche, prospettando scenari apocalittici nei quali il paziente sarebbe “invitato a richiedere la morte” e “togliere il disturbo” in quanto la legge gliene darebbe la facoltà; per non parlare degli altrettanto catastrofici scenari radenti le pratiche eugenetiche della Germania nazista con tutte le loro terribili conseguenze.
Ciò che è inspiegabile è il perché questi dubbi non siano emersi anche in materia di diritto al rifiuto, considerato legittimo e recante gli stessi effetti dell’eutanasia attiva, vale a dire la morte del paziente.
Inoltre la comparazione e l’esperienza giuridica di ordinamenti stranieri appartenenti al cosiddetto modello a tendenza permissiva (o “aperto”) ci dimostrano: 1) che la prima risposta data dal modello impositivo riguardo la sacralità della vita può valere per un credente, ma qualora un paziente non fosse osservante si violerebbe il suo diritto all’autodeterminazione (configgendo anche con il carattere laico, secolare e liberale della nostra Costituzione, e con l’art.7, comma 1 della stessa); 2) che i dubbi e i timori verso i medici dovrebbero essere presenti anche nel caso in cui si dovesse spegnere un respiratore artificiale (problema che nessuno si è, giustamente, posto, in quanto, oltre alla legge, esiste quel codice di deontologia medica sopraccitato pronto non solo a tutelare il malato, ma anche a vigilare sul corretto operato dei suoi sottoposti); 3) che l’eutanasia attiva non sarebbe abbandonata a se stessa e al libero arbitrio di medici, pazienti e persone ad essi collegate, ma sarebbe disciplinata e condizionata da regole tanto rigide quanto efficaci, scongiurando qualsiasi tipo di abuso.
Basti pensare all’Olanda, dotata di un modello tendenzialmente permissivo, in cui omicidio del consenziente e assistenza al suicidio sono reati ben identificati e severamente puniti dalla legge; ma tale punibilità diviene impunibilità in presenza di 6 requisiti ben precisi, fissati dalla legge n.194 del 19 aprile 2001, molto discussa ma alla fine accettata di buon grado dalla popolazione nederlandese:
a) il paziente deve aver formulato la richiesta in modo libero e ben meditato;
b) il paziente dev’essere afflitto da una sofferenza ineludibile ed insopportabile;
c) il medico deve informare il paziente circa la situazione in cui egli si trova e circa le sue prospettive;
d) medico e paziente, in virtù dell’alleanza terapeutica che tra essi vige, devono assicurarsi che non esista alcuna, seppur minima, possibilità di miglioramento delle condizioni del malato, e che non esista alcuna alternativa soddisfacente per il malato;
e) un medico terzo ed indipendente dovrà visitare accuratamente il malato e dare lo stesso responso formulato dal medico sopraccitato, in forma scritta e seguendo i punti a, b, c e d;
f) il medico deve porre fine alla vita del paziente o assisterlo al suicidio in modo scrupoloso dal punto di vista medico.
Per concludere, come appena visto, le soluzioni alla problematica dell’eutanasia e della sua regolamentazione ci sono. Probabilmente la situazione socio-culturale italiana non ci permette ancora di approvare in tempi rapidi una legge che disciplini il fine-vita (com’è accaduto in Olanda, in Belgio, in Lussemburgo, in Svizzera o nello Stato dell’Oregon), affinché casi di omicidi del consenziente e suicidi assistiti per così dire “clandestini” (caratterizzati da morti orribili, dovute magari a miscele errate o ad una mancata sedazione preventiva del paziente) non si verifichino più.

La cosa importante non è tutelare o meno un diritto all’eutanasia attiva, ma tornare a parlarne, a confrontarsi e a dialogare, promuovendo il pluralismo culturale ed evitando, così, che persone già gravemente malate siano ulteriormente afflitte dal dubbio causato dall’oscurità, dall’irragionevolezza e dalle contraddizioni legislative.

sabato 21 gennaio 2017

La Morte sugli sci, la nuova vignetta di Charlie Hebdo

Charlie Hebdo torna ad occuparsi dell'Italia e lo fa piazzando una vignetta che sarà destinata a far discutere.
Questa volta l'oggetto del disegno è la valanga che ha colpito l'Hotel Rigopiano, nel quale si vede la Morte sciare giù dalla montagna con la didascalia “Italia: la neve è arrivata”, mentre esclama: “E non basterà per tutto il mondo!”.
Ovviamente e, da un certo punto di vista, plausibilmente è scattata la social-indignazione con domande più o meno retoriche tipo: “Ma come cazzo si fa ad ironizzare su una tragedia del genere? Chi è quel coglione che ha avuto questa macabra idea? Non sarebbe meglio ignorare Charlie Hebdo quando produce questo genere di spazzatura, anziché dargli tanto rilievo?”
La mia domanda più o meno retorica, invece, è un'altra: e se la nuova vignetta di Charlie Hebdo non fosse una mancanza di rispetto verso le vittime della valanga, ma, come già scrissi a proposito del disegno sul terremoto della scorsa estate, fosse un attacco a chi quelle vite avrebbe dovuto tutelarle, mettendo a disposizione i mezzi per la pulizia delle strade e per assicurare soccorsi più rapidi in caso di emergenza, dato che, come scrive il Corriere della Sera, “Lo scaricabarile tra le istituzioni, le lungaggini burocratiche e i difetti di comunicazione tra i vari enti hanno paralizzato gli interventi”?
O ancora, e se la nuova vignetta di Charlie Hebdo non fosse una mancanza di rispetto verso le vittime della valanga, ma verso la Morte stessa che, sdentata e pagliaccesca, sfreccia tra la neve dovendo utilizzare le falci come racchette, dileggiando ciò che viene spesso (per non dire sempre) considerato intoccabile?
Tutto può essere oggetto di Satira, quindi siamo davvero sicuri che l'autore della vignetta sia semplicemente un sadico bastardo e che il suo obiettivo fosse prendersi gioco di una disgrazia capitata ad un gruppo di esseri umani come lui? O forse il messaggio è un po' più profondo e critico come, a mio parere, fu quello lanciato dalla rivista satirica dopo il sisma di agosto, volendo dirci che la Morte non avrebbe mai indossato quegli sci se gli organi di potere avessero fatto diligentemente il loro lavoro?
Ecco, secondo me se si vuole avere a che fare con la Satira e giudicare la Satira (di qualsiasi tipo) bisogna spingersi oltre, provare ad andare al di là del senso letterale, tentare di interpretare.

Altrimenti rimarremo sempre su due piani differenti, pretendendo di scavalcare muri utilizzando sgabelli anziché scale a pioli.