Talvolta il destino o Dio o la natura,
secondo la visione di ciascuno, possono catapultare l’essere umano
in una condizione fisica e psichica tale da non permettergli più di
proseguire la sua esistenza serenamente e dignitosamente, tale da
fargli balenare nella mente l’idea per cui un determinato tipo di
vita non è vita e quindi non vale la pena di essere vissuta, tale da
fargli desiderare la morte. Lo stesso Seneca scrisse a Lucilio: “Non
rinuncerò alla vecchiezza se essa mi lascerà intero a me stesso,
dico intero nella parte migliore; ma se comincerà a scuotere la mia
mente, a schiantarne delle parti, se mi lascerà non la vera vita, ma
solo una forza animatrice di vitalità organica, senz’altro me ne
uscirò da quell’edificio interiormente viziato e destinato a
rovinare. Non cercherò con la morte di fuggire una malattia purché
si tratti di una malattia da cui possa guarire e il mio intelletto
non venga deteriorato. Non volgerò le mani contro me stesso per
fuggire il dolore: in questo caso darsi la morte significa essere
vinti. Ma quando saprò di dover soffrire condannato a un dolore
senza fine, allora uscirò dalla vita non per fuggire il dolore, ma
perché esso sarà d’impedimento a tutte quelle cose che
costituiscono la ragione di vivere.”
Spesso in queste drammatiche situazioni
si giunge, purtroppo, ad un punto in cui parenti, coniugi e amici
(vale a dire quelle figure che abitualmente ispirano conforto,
fiducia e amore) non sono più in grado di risollevare lo spirito e
ridonare la gioia di vivere a persone gravemente malate, costrette
perennemente a letto, incapaci di badare a se stesse e di possedere
anche una minima autonomia; non è raro che queste stesse persone
siano obbligate a vivere con l’ausilio di macchine ed apparecchi
che permettono loro di sopravvivere, fornendo nutrizione, idratazione
e ventilazione artificiali, come polmoni d’acciaio o sondini
naso-gastrici; e non è raro che queste stesse persone versino in una
condizione di immobilità e incapacità talmente gravi da far
desiderare loro di morire senza che possano, tuttavia, procedere
all’atto materiale del suicidio.
Ed è qui che si invoca la pietà, che
si esige il rispetto della propria dignità (così fortemente
tutelata dal capo I della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione
Europea e in particolar modo dall’art.1 della Carta stessa) e che
si chiede, tristemente, l’aiuto di “una mano amica” per
ricevere la dose letale di morfina o per spegnere il macchinario
vitale, uscendo (come scrisse lucidamente il filosofo romano nel I
secolo d.C.) “da quell’edificio interiormente viziato e
destinato a rovinare”.
Come agire, dunque, in queste
situazioni? Cosa fare nei casi in cui un individuo gravemente malato,
lacerato da sofferenze insopportabili sia a livello fisico che
psichico, ma incapace di suicidarsi, desideri, piuttosto che
continuare a vivere una vita per lui non più decorosa, ricevere una
morte dignitosa attraverso mezzi giuridicamente leciti?
Qui fa il suo ingresso il biodiritto,
quel ramo giuridico definito da Scarpelli come il diritto relativo
ai fenomeni della vita organica del corpo, della generazione, dello
sviluppo, maturità e vecchiaia, della salute, della malattia e della
morte; e la disciplina del fine-vita (così come molti altri
ambiti della bioetica e della biomedicina) rientra pienamente in
questo settore. Vivendo in uno stato di diritto, in cui le leggi
regolano e normalizzano la vita di ciascuno, con lo scopo di tutelare
i diritti e far rispettare i doveri di ogni cittadino, è bene essere
informati sul modo in cui l’ordinamento italiano disciplina il
delicato tema del fine-vita.
Considerando la fondamentale importanza
e prevalenza gerarchica della Costituzione su qualsiasi altro tipo di
legge ordinaria partorita dal Parlamento, e richiamando in particolar
modo il diritto alla salute sancito dall’articolo 32 della Carta
costituzionale (per cui “la Repubblica tutela la salute come
fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività,
e garantisce cure gratuite agli indigenti” e per cui “Nessuno può
essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per
disposizione di legge” – come nel caso dei vaccini obbligatori –
e ancora “La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti
dal rispetto della persona umana”), la disciplina delle situazioni
di fine-vita risulta essere ancora troppo oscura e confusa, violando
talvolta principi imprescindibili come l’eguaglianza (tutelata
dall’art.3 della Costituzione), la ragionevolezza e la
non-contraddizione delle norme.
Dopo casi giuridicamente rilevanti e
mediaticamente clamorosi come i vari Welby, Nuvoli ed Englaro, capaci
di scuotere dal torpore dell’indifferenza sia le maggiori
rappresentanze laiche e politiche che quelle religiose, il
Legislatore italiano ha provato a fare un po’ d’ordine dando vita
ad un disegno di legge (intitolato “Disposizioni in materia di
alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni
anticipate di trattamento”, ma meglio conosciuto come ddl Calabrò, bocciato e abbandonato dal Parlamento al termine dell'ultimo governo Berlusconi)
incapace, tuttavia, di disciplinare efficacemente questo tema assai
delicato (direttamente collegato alle dichiarazioni –prima
direttive– anticipate di trattamento da esso regolate), ma
riuscendo comunque nell’intento di fissare dei paletti ben precisi
circa le pratiche vietate e penalmente perseguibili nel caso in cui
il paziente infermo avesse invocato l’eutanasia nelle forme
dell’assistenza al suicidio e dell’omicidio del consenziente
(come dimostra l’art.1, lettera c del suddetto progetto di legge).
Infatti esistono sostanzialmente tre
modi attraverso i quali un malato, affetto da patologie gravi e non
più sopportabili che ad esempio possono colpire il sistema nervoso
(e quindi anche la mobilità), può ottenere ciò che per lui è
liberazione tramite la morte:
1. il rifiuto, qualora ne sia
sottoposto, dei trattamenti sanitari vitali (nutrizione, idratazione
e respirazione artificiali);
2. l’assistenza al suicidio;
3. l’omicidio del consenziente.
Tuttavia, a differenza del primo
metodo, ritenuto essenzialmente legittimo ed anzi tutelato dallo
strumento giuridico più rigido e sicuro possibile (la Costituzione,
ex articolo 32), gli altri due, come detto, non solo non sono
tutelati dall’ordinamento, ma anzi sono puniti attraverso lo
strumento più coercitivo e repressivo possibile qual è la sanzione
penale: assistenza al suicidio e omicidio del consenziente sono
infatti puniti con la reclusione, come espressamente previsto dagli
articoli 580 e 579 del nostro codice penale.
Inoltre, ricercando una disperata
difesa assoluta della vita (e, per certi versi, folle nel tentare di
azzerare l’autodeterminazione e il volere del paziente in favore di
un’esistenza forzata, rendendolo così un mero “strumento”
utile a preservare un bene astratto com’è la vita), il ddl Calabrò
prevede anche un’incomprensibile riduzione del primo metodo,
affermando all’art.3, comma 5 che “alimentazione e idratazione
[...] devono essere mantenute fino al termine della vita” e che
“non possono formare oggetto di dichiarazione anticipata di
trattamento”, sostenendo implicitamente come esse non siano quindi
considerate trattamenti sanitari (e quindi beni disponibili, soggetti
ad un eventuale rifiuto del paziente, come evidenzia l’art.32
Cost.), bensì azioni fisiologicamente dovute che il malato deve
subire fino a che un medico non decreterà un eventuale accanimento
diagnostico-terapeutico (come indica l’art.16 del Codice di
deontologia medica).
L’autodeterminazione del paziente
risulta così ulteriormente ristretta, e nonostante la delicatezza e
il carattere indubbiamente etico e personalissimo della scelta
riguardo la prosecuzione della propria vita, tale legge sembra cedere
questa stessa scelta ad una figura terza (il medico), sicuramente
preparata nel settore, ma altrettanto sicuramente dotata di una
morale e di una concezione della vita del tutto personale e spesso
diversa da quella del malato in questione.
Qualche domanda sorge spontanea: perché
un paziente che ha scelto come vivere, non può scegliere come
morire, soprattutto in casi di estrema sofferenza e dolore? Perché
si tutela così fortemente la vita, a prescindere da come viene
vissuta e dalla volontà del malato di continuare o meno a viverla?
Perché, ai sensi del ddl Calabrò, un paziente, la cui vita è
legata ad un respiratore artificiale, può scegliere ed ha il diritto
di morire chiedendo lo spegnimento di tale macchina, mentre un altro
paziente, la cui vita è appesa ad un alimentatore mediante sondino
naso-gastrico oppure è immobilizzato a causa di una grave malattia
che, tuttavia, non lo obbliga a respirare tramite un ventilatore
meccanico, non può scegliere di morire o farsi aiutare a morire, ed
anzi ha il dovere di rimanere in vita? Su cosa si basa questa palese
violazione dei principi di eguaglianza e libertà personale, sanciti
dagli articoli 3 e 13, comma 1 della nostra Costituzione?
Le risposte date sino ad ora sono tre e
contraddistinguono i cosiddetti modelli a tendenza impositiva (o
“chiusi”), solitamente caratterizzati dalla tutela giuridica del
diritto del paziente al rifiuto dei trattamenti sanitari (anche se su
questo punto l’Italia, con il ddl Calabrò, dimostra di essere più
“chiusa” di altri sistemi, come quello statunitense o britannico,
in cui idratazione e nutrizione artificiali sono trattamenti sanitari
rifiutabili) e dal divieto penale dell’omicidio del consenziente e
dell’assistenza al suicidio.
Queste tre risposte, come ampiamente
argomentato da C. Casonato in Introduzione al biodiritto, sono: 1) il
carattere sacro ed indisponibile della vita, per cui tale bene
appartiene a Dio, e solo Dio e non un medico o un individuo qualsiasi
può sottrarlo al paziente (e nemmeno il paziente stesso); 2) il
pericolo che la classe medica, abitualmente identificata come
curatrice di malattie e “portatrice di vita”, possa essere
etichettata come “donatrice di morte”, in quanto spetterebbe ad
essa il gravoso compito di prescrivere o iniettare al malato la
sostanza letale da lui richiesta per passare a miglior vita; 3) il
fenomeno della slippery slope, la cosiddetta “china
scivolosa”, secondo cui un’eventuale legittimazione
dell’eutanasia attiva diretta ed indiretta (omicidio del
consenziente e suicidio assistito) porterebbe ad un inarrestabile
abuso delle pratiche eutanasiche, prospettando scenari apocalittici
nei quali il paziente sarebbe “invitato a richiedere la morte” e
“togliere il disturbo” in quanto la legge gliene darebbe la
facoltà; per non parlare degli altrettanto catastrofici scenari
radenti le pratiche eugenetiche della Germania nazista con tutte le
loro terribili conseguenze.
Ciò che è inspiegabile è il perché
questi dubbi non siano emersi anche in materia di diritto al rifiuto,
considerato legittimo e recante gli stessi effetti dell’eutanasia
attiva, vale a dire la morte del paziente.
Inoltre la comparazione e l’esperienza
giuridica di ordinamenti stranieri appartenenti al cosiddetto modello
a tendenza permissiva (o “aperto”) ci dimostrano: 1) che la prima
risposta data dal modello impositivo riguardo la sacralità della
vita può valere per un credente, ma qualora un paziente non fosse
osservante si violerebbe il suo diritto all’autodeterminazione
(configgendo anche con il carattere laico, secolare e liberale della
nostra Costituzione, e con l’art.7, comma 1 della stessa); 2) che i
dubbi e i timori verso i medici dovrebbero essere presenti anche nel
caso in cui si dovesse spegnere un respiratore artificiale (problema
che nessuno si è, giustamente, posto, in quanto, oltre alla legge,
esiste quel codice di deontologia medica sopraccitato pronto non solo
a tutelare il malato, ma anche a vigilare sul corretto operato dei
suoi sottoposti); 3) che l’eutanasia attiva non sarebbe abbandonata
a se stessa e al libero arbitrio di medici, pazienti e persone ad
essi collegate, ma sarebbe disciplinata e condizionata da regole
tanto rigide quanto efficaci, scongiurando qualsiasi tipo di abuso.
Basti pensare all’Olanda, dotata di
un modello tendenzialmente permissivo, in cui omicidio del
consenziente e assistenza al suicidio sono reati ben identificati e
severamente puniti dalla legge; ma tale punibilità diviene
impunibilità in presenza di 6 requisiti ben precisi, fissati dalla
legge n.194 del 19 aprile 2001, molto discussa ma alla fine accettata
di buon grado dalla popolazione nederlandese:
a) il paziente deve aver formulato la
richiesta in modo libero e ben meditato;
b) il paziente dev’essere afflitto da
una sofferenza ineludibile ed insopportabile;
c) il medico deve informare il paziente
circa la situazione in cui egli si trova e circa le sue prospettive;
d) medico e paziente, in virtù
dell’alleanza terapeutica che tra essi vige, devono assicurarsi che
non esista alcuna, seppur minima, possibilità di miglioramento delle
condizioni del malato, e che non esista alcuna alternativa
soddisfacente per il malato;
e) un medico terzo ed indipendente
dovrà visitare accuratamente il malato e dare lo stesso responso
formulato dal medico sopraccitato, in forma scritta e seguendo i
punti a, b, c e d;
f) il medico deve porre fine alla vita
del paziente o assisterlo al suicidio in modo scrupoloso dal punto di
vista medico.
Per concludere, come appena visto, le
soluzioni alla problematica dell’eutanasia e della sua
regolamentazione ci sono. Probabilmente la situazione socio-culturale
italiana non ci permette ancora di approvare in tempi rapidi una
legge che disciplini il fine-vita (com’è accaduto in Olanda, in
Belgio, in Lussemburgo, in Svizzera o nello Stato dell’Oregon),
affinché casi di omicidi del consenziente e suicidi assistiti per
così dire “clandestini” (caratterizzati da morti orribili,
dovute magari a miscele errate o ad una mancata sedazione preventiva
del paziente) non si verifichino più.
La cosa importante non è tutelare o
meno un diritto all’eutanasia attiva, ma tornare a parlarne, a
confrontarsi e a dialogare, promuovendo il pluralismo culturale ed
evitando, così, che persone già gravemente malate siano
ulteriormente afflitte dal dubbio causato dall’oscurità,
dall’irragionevolezza e dalle contraddizioni legislative.
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