mercoledì 19 marzo 2014

Satiricamente moderni: genesi di un genere geniale

L'abito non fa il comico
Se consideriamo i dati presenti in Facebook, la pagina ufficiale di Maurizio Crozza conta (al momento) ben 764'260 seguaci e quella di Vauro Senesi ne conta 334'585; per non parlare di quella di Beppe Grillo che, agevolata sicuramente dalla sua “discesa in campo”, ne ha ben 1'574'911!
Perché questa introduzione? Perché tutti e tre sono accomunati da una caratteristica che, in parte, ne ha favorito il successo: la Satira.
Si direbbe che, per avere così tanti fans, la Satira sia una materia ben conosciuta e masticata dai più.
Ma è davvero così? Oppure essa è apprezzata solo ed esclusivamente perché diverte, mettendo alla gogna uomini ricchi e potenti?
Con questo articolo intendo fugare ogni dubbio (o, perlomeno, i dubbi maggiori) raccontandone, in poche righe, la genesi.

Molto brevemente e a grandi linee, la Satira nacque come genere letterario il cui nome (nonostante si possa subito pensare al disneyano Fil, il satiro dall’aspetto caprino del cartone animato Hercules) deriva dal latino classico lanx satura, ovvero “piatto pieno di macedonia di frutta e legumi” che richiama la natura mista del componimento, fatto di prosa e versi.
Essa si sviluppò (per quanto riguarda il mondo latino, tralasciando dunque la sua esperienza greca) nel II secolo a.C. con il poeta Gaio Lucilio: aristocratico membro di una famiglia ricca e influente, tanto da permettersi il lusso di schernire i viziosi potenti dell’epoca, oltre al lusso (ben più materiale) di gozzovigliare e trastullarsi tutto il giorno (e so che molti studenti universitari, come il sottoscritto, capiscono cosa intendo...)
Tuttavia, questo vero e proprio untouchable dell’antica Roma ebbe anche il merito di rifiutare la lucrosa carriera politica pur di mantenere inalterata la sua “identità morale” (...mentre oggi ci ritroviamo con il senatore Antonio Razzi, quello del "vitaliiiizio"...)
Quindi, stima profonda per il buon vecchio Lucilio, che impiegò buona parte del suo ozio quotidiano nella stesura di questi versi taglienti e beffardi, stilisticamente semplici e lineari, e filosoficamente ispirati ai principi di giustizia, moderazione e magnanimità.
Tali versi furono poi raccolti nei suoi trenta Saturarum libri che richiamano, inequivocabilmente, l’etimologia del termine analizzato.
A differenza della Satira moderna, la quale, tendenzialmente, prende di mira gli esponenti politici, è bene sottolineare come quella luciliana non si diverta a mettere alla berlina solo ed esclusivamente i governanti, ma (in senso più lato) i viziosi... E questo la dice assai lunga sugli sviluppi storici del genere, tanto da rendere “politici” e “viziosi” due parole tragicomicamente interscambiabili! Sì perché, se è vero che anche il geniale Crozza non disdegna imitare individui ricchi e potenti (apparentemente) ai margini dell’esperienza politica italiana (come un Briatore o un Marchionne), è altrettanto innegabile che le persone (per non dire “macchiette”) prese maggiormente di mira dai comici satirici sono i nostri statisti (mi rendo conto che usare la parola “statisti” per descrivere l’imbarazzante ciurmaglia al timone di questo precario Stivale potrebbe causare spasmi, nausea e conati di vomito... Perciò, a quelli che, dopo la lettura delle ultime righe, avessero riscontrato tali sintomi, consiglio dieci minuti di pausa, una limonata calda ed evitare Ballarò per i prossimi 30 giorni).

Riprendendo e tornando indietro di qualche secolo, la tradizione satirica venne portata avanti prima da Orazio, nel 35 a.C., e poi, intorno al 55 d.C., da Persio, autore di 650 esametri sulle problematiche del tempo, i quali si fermarono, però, ad un livello preliminare di denuncia, indice di un’insofferenza tanto lampante quanto incapace di dare una vera e propria svolta ai costumi dell’epoca.
Seguì il satirico per antonomasia: Decimo Giunio Giovenale (per gli amici semplicemente “Giovenale” o anche “Giò” o “Joe”, ma quest’ultimo solo dopo la conquista della Britannia! Pensate se l’ancella, chiamandolo, avesse dovuto dire: “Mio signore, Decimo Giunio Giovenale, la cena è prontaaaaa!!!” si sarebbe tutto freddato! Molto più pratico un: “Ehi Giò! A tavola!”)
Con le sue sedici satire, Giovenale aggiunse alla denuncia una vibrata protesta sociale, smentendo lo stereotipo sapientemente coltivato e propugnato dall’aristocrazia del tempo, secondo cui la ricchezza non era una fortuna, ma un vero e proprio fardello, una disgrazia che aveva colpito gli abbienti del tempo, minando e insidiando la purezza del loro spirito. Beati, dunque, quegli straccioni e pezzenti che sulle loro deperite spalle non avessero dovuto sopportare tale peso!
E il “carico” sostenuto da alcuni fautori della suddetta filosofia non era per nulla indifferente; probabilmente uno di questi, Lucio Anneo Seneca, riusciva a toccarsi gli alluci con la punta del naso, dati i 300'000'000 di sesterzi che gravavano sulla sua schiena! Mentre Catone Uticense giungeva comodamente a sfiorarsi le ginocchia con il mento, se ci basiamo sul suo patrimonio (anche se ben più scarno di quello senechiano!): “solo” 4'000'000 di sesterzi, con una rendita mensile di 18'000 sesterzi (per capirci, lo stipendio di un legionario era di 45 sesterzi al mese!)
In un’epoca di ingente sperequazione socio-economica (sì, perché adesso le cose sono di gran lunga "cambiate", dato che lo stipendio di un alpino, nel primo anno di servizio, è di 850 euro mensili, contro i 13'000 di un parlamentare...), Giovenale volle sfatare questo mito, denunciando come la povertà non fosse affatto un bene e come i ricchi, divenuti tali grazie, probabilmente, a qualche attività illecita, indecorosa e delittuosa (...erano proprio altri tempi...), plagiassero e tenessero buona la plebe, lodandone e “invidiandone” la condizione ben più misera.
Tuttavia, l’indignazione andò a braccetto con l’impotenza, relegando la denuncia di Giovenale alla sola idealizzazione di una società utopistica di stampo ancestrale, priva di disparità; e l’assenza di una coscienza di classe favorì, ovviamente, il fallimento del bramato riscatto sociale, facendo sprofondare le sue ultime satire nella più dolorosa rassegnazione.

Sono passati quasi duemila anni (che non sono proprio noccioline!) dalla redazione dei Saturarum libri, ma ancora oggi, con le dovute distanze (soprattutto intellettuali) di “Seneca” e di “Catone Uticense” il mondo è pieno!
La Satira si è sviluppata e ammodernata, anche se credo continui a perseguire il medesimo fine: ridicolizzare i potenti, smascherarne i vizi, esaltarne i difetti, tentando, attraverso la risata (spesso amara) di invitare lo spettatore, anzi il suddito, alla riflessione.
Nel 2014 non si ha più la scusante dell’assenza di una coscienza sociale e, davanti ai soprusi, l’indignazione e la ribellione (almeno dialettica) sono un diritto, o forse un dovere; poiché, come diceva il vecchio Giò nella Satira V: "Umilia meno battere all’addiaccio i denti, rosicchiare i ripugnanti tozzi di pane gettati ai cani”, che subire le derisioni e le violenze dei potenti; per poi concludere: “E così ve ne state tutti muti, in attesa, col pane pronto, intatto, stretto in pugno. Ha ragione lui [il tiranno] a trattarvi in questo modo. Se puoi sopportare tutto ciò, te lo meriti.”

Come a dire: “Peste colga chi oggi sceglie la via della sottomissione e del più sordido e becero clientelismo!”

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