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L'abito non fa il comico |
Perché
questa introduzione? Perché tutti e tre sono accomunati da una caratteristica
che, in parte, ne ha favorito il successo: la Satira.
Si
direbbe che, per avere così tanti fans, la Satira sia una materia ben conosciuta
e masticata dai più.
Ma
è davvero così? Oppure essa è apprezzata solo ed esclusivamente perché diverte,
mettendo alla gogna uomini ricchi e potenti?
Con
questo articolo intendo fugare ogni dubbio (o, perlomeno, i dubbi maggiori)
raccontandone, in poche righe, la genesi.
Molto
brevemente e a grandi linee, la Satira
nacque come genere letterario il cui nome (nonostante si possa subito pensare
al disneyano Fil, il satiro dall’aspetto caprino del cartone animato Hercules) deriva dal latino classico lanx satura, ovvero “piatto pieno di macedonia
di frutta e legumi” che richiama la natura mista del componimento, fatto di
prosa e versi.
Essa
si sviluppò (per quanto riguarda il mondo latino, tralasciando dunque la sua
esperienza greca) nel II secolo a.C. con il poeta Gaio Lucilio: aristocratico
membro di una famiglia ricca e influente, tanto da permettersi il lusso di
schernire i viziosi potenti dell’epoca, oltre al lusso (ben più materiale) di
gozzovigliare e trastullarsi tutto il giorno (e so che molti studenti universitari,
come il sottoscritto, capiscono cosa intendo...)
Tuttavia,
questo vero e proprio untouchable dell’antica
Roma ebbe anche il merito di rifiutare la lucrosa carriera politica pur di
mantenere inalterata la sua “identità morale” (...mentre oggi ci ritroviamo con il senatore Antonio Razzi, quello del "vitaliiiizio"...)
Quindi,
stima profonda per il buon vecchio Lucilio, che impiegò buona parte del suo
ozio quotidiano nella stesura di questi versi taglienti e beffardi,
stilisticamente semplici e lineari, e filosoficamente ispirati ai principi di
giustizia, moderazione e magnanimità.
Tali
versi furono poi raccolti nei suoi trenta Saturarum
libri che richiamano, inequivocabilmente, l’etimologia del termine
analizzato.
A
differenza della Satira moderna, la quale, tendenzialmente, prende di mira gli esponenti
politici, è bene sottolineare come quella luciliana non si diverta a mettere
alla berlina solo ed esclusivamente i governanti, ma (in senso più lato) i
viziosi... E questo la dice assai lunga sugli sviluppi storici del genere,
tanto da rendere “politici” e “viziosi” due parole tragicomicamente interscambiabili!
Sì perché, se è vero che anche il geniale Crozza non disdegna imitare individui
ricchi e potenti (apparentemente) ai margini dell’esperienza politica italiana (come
un Briatore o un Marchionne), è altrettanto innegabile che le persone (per non
dire “macchiette”) prese maggiormente di mira dai comici satirici sono i nostri
statisti (mi rendo conto che usare la parola “statisti” per descrivere
l’imbarazzante ciurmaglia al timone di questo precario Stivale potrebbe causare
spasmi, nausea e conati di vomito... Perciò, a quelli che, dopo la lettura
delle ultime righe, avessero riscontrato tali sintomi, consiglio dieci minuti
di pausa, una limonata calda ed evitare Ballarò per i prossimi 30 giorni).
Riprendendo
e tornando indietro di qualche secolo, la tradizione satirica venne portata avanti
prima da Orazio, nel 35 a.C., e poi, intorno al 55 d.C., da Persio, autore di
650 esametri sulle problematiche del tempo, i quali si fermarono, però, ad un
livello preliminare di denuncia, indice di un’insofferenza tanto lampante
quanto incapace di dare una vera e propria svolta ai costumi dell’epoca.
Seguì
il satirico per antonomasia: Decimo Giunio Giovenale (per gli amici
semplicemente “Giovenale” o anche “Giò” o “Joe”, ma quest’ultimo solo dopo la
conquista della Britannia! Pensate se l’ancella, chiamandolo, avesse dovuto
dire: “Mio signore, Decimo Giunio Giovenale, la cena è prontaaaaa!!!” si
sarebbe tutto freddato! Molto più pratico un: “Ehi Giò! A tavola!”)
Con
le sue sedici satire, Giovenale aggiunse alla denuncia una vibrata protesta
sociale, smentendo lo stereotipo sapientemente coltivato e propugnato
dall’aristocrazia del tempo, secondo cui la ricchezza non era una fortuna, ma
un vero e proprio fardello, una disgrazia che aveva colpito gli abbienti del
tempo, minando e insidiando la purezza del loro spirito. Beati, dunque, quegli
straccioni e pezzenti che sulle loro deperite spalle non avessero dovuto
sopportare tale peso!
E
il “carico” sostenuto da alcuni fautori della suddetta filosofia non era per
nulla indifferente; probabilmente uno di questi, Lucio Anneo Seneca, riusciva a
toccarsi gli alluci con la punta del naso, dati i 300'000'000 di sesterzi che
gravavano sulla sua schiena! Mentre Catone Uticense giungeva comodamente a
sfiorarsi le ginocchia con il mento, se ci basiamo sul suo patrimonio (anche se
ben più scarno di quello senechiano!): “solo” 4'000'000 di sesterzi, con una
rendita mensile di 18'000 sesterzi (per capirci, lo stipendio di un
legionario era di 45 sesterzi al mese!)
In
un’epoca di ingente sperequazione socio-economica (sì, perché adesso le cose sono di gran lunga "cambiate", dato che lo stipendio di un alpino, nel primo anno di servizio, è di 850 euro mensili, contro i 13'000 di un parlamentare...), Giovenale volle sfatare
questo mito, denunciando come la povertà non fosse affatto un bene e come i
ricchi, divenuti tali grazie, probabilmente, a qualche attività illecita,
indecorosa e delittuosa (...erano proprio altri tempi...), plagiassero e tenessero buona la plebe, lodandone e
“invidiandone” la condizione ben più misera.
Tuttavia,
l’indignazione andò a braccetto con l’impotenza, relegando la denuncia di Giovenale
alla sola idealizzazione di una società utopistica di stampo ancestrale, priva
di disparità; e l’assenza di una coscienza di classe favorì, ovviamente, il
fallimento del bramato riscatto sociale, facendo sprofondare le sue ultime
satire nella più dolorosa rassegnazione.
Sono
passati quasi duemila anni (che non sono proprio noccioline!) dalla redazione
dei Saturarum libri, ma ancora oggi,
con le dovute distanze (soprattutto intellettuali) di “Seneca” e di “Catone
Uticense” il mondo è pieno!
La Satira si è sviluppata e ammodernata, anche se credo continui a perseguire il medesimo fine: ridicolizzare i potenti, smascherarne i vizi, esaltarne i difetti, tentando, attraverso la risata (spesso amara) di invitare lo spettatore, anzi il suddito, alla riflessione.
La Satira si è sviluppata e ammodernata, anche se credo continui a perseguire il medesimo fine: ridicolizzare i potenti, smascherarne i vizi, esaltarne i difetti, tentando, attraverso la risata (spesso amara) di invitare lo spettatore, anzi il suddito, alla riflessione.
Nel
2014 non si ha più la scusante dell’assenza di una coscienza sociale e, davanti
ai soprusi, l’indignazione e la ribellione (almeno dialettica) sono un diritto,
o forse un dovere; poiché, come diceva il vecchio Giò nella Satira V: "Umilia
meno battere all’addiaccio i denti, rosicchiare i ripugnanti tozzi di pane
gettati ai cani”, che subire le derisioni e le violenze dei potenti; per poi
concludere: “E così ve ne state tutti muti, in attesa, col pane pronto, intatto,
stretto in pugno. Ha ragione lui [il tiranno] a trattarvi in questo modo. Se
puoi sopportare tutto ciò, te lo meriti.”
Come
a dire: “Peste colga chi oggi sceglie la via della sottomissione e del più
sordido e becero clientelismo!”
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