domenica 23 marzo 2014

Ruggito o miagolio? Il verso del malcontento

Malcontento venetista: Renzi pensa ad un'eventuale via del dialogo
Bandiere raffiguranti leoni alati garriscono al vento. La prosopopea dell'Indipendensa si sta manifestando nelle piazze venete, dopo i risultati del sondaggio (più che referendum) online, promosso dal gruppo venetista Plebiscito.eu, circa la possibilità di abbandonare l'Italia e i legami politici, istituzionali ed economici con lo Stivale.
Sembra che i favorevoli alla scissione siano stati più di due milioni (anche se per la Questura, alla fine, saranno poco più di 500'000...); esattamente 2'102'969, pari all'89% dei votanti, contro i 257'276 “no” (10,9%), decretando, così, una vittoria schiacciante e indiscussa.
Quindi, si corra verso i confini, si istituiscano delle dogane (perché pare proprio che questa nuova Repubblica veneta sarà la meta più ambita d'Europa: un vero paradiso terrestre, ricco di lavoro, servizi efficienti e prosperità, e privo di tentazioni serpentesche e diaboliche, come corruzione, lavoro “nero”, evasione fiscale e squallidi clientelismi), si crei il nuovo parlamento, si bandisca la “moneta innominabile” (dando vita ad un nuovo conio, più congeniale alla situazione, e che magari richiami questo nuovo benessere, come ad esempio, non so, la “veneta”: una valuta forte e competitiva, che darà del filo da torcere a dollaro e yen!), si restituisca al dialetto la dignità che merita (come accadde per il volgare, che dal XIV secolo in poi cominciò a spodestare il latino)... Insomma, si rinasca, ma da soli!

A parte gli scherzi, l'entusiasmo “dal Garda ridente alla chiara Laguna” (come cantava l'Anonima Magnagati) è tangibile e sotto gli occhi di tutti.
Ma è davvero tutto così semplice e c'è davvero tutta questa eccitazione?
Nonostante il governatore Luca Zaia assicuri che: “Il diritto internazionale ci dà ragione”, pare che, al momento, la Costituzione (e non solo) impedisca la manovra secessionista, con buona pace di indipendentisti, “macroregionisti” e leghisti (sì, perché, per quanto molti definiscano tale sondaggio apolitico e apartitico, è innegabile la correlazione con le ideologie e i propositi di Lega, Liga e il resto dell'armata Brancaleone –alato, ovviamente!–). Per non parlare delle modalità di voto con cui sono stati raggiunti questi risultati: la procedura online, infatti, non pare assicurare la limpidezza e la certezza di “un solo voto per ciascuna persona”, con il fantasma delle identità fittizie e dei “Mario Rossi” di turno sempre dietro l'angolo, rischiando di trasformare il poderoso ruggito in un flebile miagolio (nonostante i promotori abbiano garantito, sul proprio sito, che: “Nei prossimi giorni saranno disponibili tutti i dettagli sui voti, le aree locali, i candidati, i quesiti collaterali.”)

Da cittadino italiano e veneto, non credo che l'indipendenza della regione possa risolvere i problemi economici e sociali dei suoi abitanti, precipitati (come il resto d'Italia) in una crisi dovuta anche alla cattiva gestione delle imprese non solo da parte dello Stato (e dei suoi rappresentanti), ma degli stessi imprenditori, eretti recentemente a nuovi martiri e santi: anime bianche, mosse solo ed esclusivamente dallo spirito di sacrificio e dal rispetto della legge, prede inermi della belva statale e delle sue fauci affilate (altrimenti dette “tasse”).
La speculazione economico-lavorativa operata, negli scorsi decenni, da alcune aziende (anche) nord-orientali ha sicuramente e in parte contribuito ad avviare questo tragico declino.
Inoltre, a livello di diplomazia, trattativa e commercio internazionali, si rischierebbe di sprofondare nell'anonimato e nell'oblio, compromettendo ulteriormente la nostra posizione economica e politica.

Tuttavia, trovo assolutamente sbagliata la scelta dei media italiani di sottovalutare, per non dire ignorare completamente, l'iniziativa indipendentista, sintomo inconfutabile di un malcontento e di una rabbia non indifferenti.
Penso, inoltre, che anche il Governo dovrebbe prendere atto di questi risultati (falsati o meno), considerando la gravità (intesa come "importanza") dell'obiettivo proposto e l'intenso malumore che, al di là del desiderio di autonomia, serpeggia nel Nordest (e non solo), rivalutando una regione che comunque (senza parlare di “Locomotiva d'Italia” ed epiteti vari) ha giocato, bene o male, un ruolo determinante nello sviluppo italiano dal secondo dopoguerra ad oggi.
Ciò non vuol dire, come detto, che i virtuosi si trovano solo in Veneto e che il resto della Penisola è abitato da farabutti e fannulloni, ma credo sia giusto riconoscere anche a questa regione (come alle altre) la dignità che merita, evitando le anacronistiche e surreali idee di divisione, cercando, piuttosto, di remare tutti verso la medesima direzione e facendo sentire (giustamente) la propria voce, con la speranza di ritrovare la rotta migliore.

L'Italia si può risollevare e il leone alato dev'essere un valido alleato, non un ostico concorrente.

mercoledì 19 marzo 2014

Satiricamente moderni: genesi di un genere geniale

L'abito non fa il comico
Se consideriamo i dati presenti in Facebook, la pagina ufficiale di Maurizio Crozza conta (al momento) ben 764'260 seguaci e quella di Vauro Senesi ne conta 334'585; per non parlare di quella di Beppe Grillo che, agevolata sicuramente dalla sua “discesa in campo”, ne ha ben 1'574'911!
Perché questa introduzione? Perché tutti e tre sono accomunati da una caratteristica che, in parte, ne ha favorito il successo: la Satira.
Si direbbe che, per avere così tanti fans, la Satira sia una materia ben conosciuta e masticata dai più.
Ma è davvero così? Oppure essa è apprezzata solo ed esclusivamente perché diverte, mettendo alla gogna uomini ricchi e potenti?
Con questo articolo intendo fugare ogni dubbio (o, perlomeno, i dubbi maggiori) raccontandone, in poche righe, la genesi.

Molto brevemente e a grandi linee, la Satira nacque come genere letterario il cui nome (nonostante si possa subito pensare al disneyano Fil, il satiro dall’aspetto caprino del cartone animato Hercules) deriva dal latino classico lanx satura, ovvero “piatto pieno di macedonia di frutta e legumi” che richiama la natura mista del componimento, fatto di prosa e versi.
Essa si sviluppò (per quanto riguarda il mondo latino, tralasciando dunque la sua esperienza greca) nel II secolo a.C. con il poeta Gaio Lucilio: aristocratico membro di una famiglia ricca e influente, tanto da permettersi il lusso di schernire i viziosi potenti dell’epoca, oltre al lusso (ben più materiale) di gozzovigliare e trastullarsi tutto il giorno (e so che molti studenti universitari, come il sottoscritto, capiscono cosa intendo...)
Tuttavia, questo vero e proprio untouchable dell’antica Roma ebbe anche il merito di rifiutare la lucrosa carriera politica pur di mantenere inalterata la sua “identità morale” (...mentre oggi ci ritroviamo con il senatore Antonio Razzi, quello del "vitaliiiizio"...)
Quindi, stima profonda per il buon vecchio Lucilio, che impiegò buona parte del suo ozio quotidiano nella stesura di questi versi taglienti e beffardi, stilisticamente semplici e lineari, e filosoficamente ispirati ai principi di giustizia, moderazione e magnanimità.
Tali versi furono poi raccolti nei suoi trenta Saturarum libri che richiamano, inequivocabilmente, l’etimologia del termine analizzato.
A differenza della Satira moderna, la quale, tendenzialmente, prende di mira gli esponenti politici, è bene sottolineare come quella luciliana non si diverta a mettere alla berlina solo ed esclusivamente i governanti, ma (in senso più lato) i viziosi... E questo la dice assai lunga sugli sviluppi storici del genere, tanto da rendere “politici” e “viziosi” due parole tragicomicamente interscambiabili! Sì perché, se è vero che anche il geniale Crozza non disdegna imitare individui ricchi e potenti (apparentemente) ai margini dell’esperienza politica italiana (come un Briatore o un Marchionne), è altrettanto innegabile che le persone (per non dire “macchiette”) prese maggiormente di mira dai comici satirici sono i nostri statisti (mi rendo conto che usare la parola “statisti” per descrivere l’imbarazzante ciurmaglia al timone di questo precario Stivale potrebbe causare spasmi, nausea e conati di vomito... Perciò, a quelli che, dopo la lettura delle ultime righe, avessero riscontrato tali sintomi, consiglio dieci minuti di pausa, una limonata calda ed evitare Ballarò per i prossimi 30 giorni).

Riprendendo e tornando indietro di qualche secolo, la tradizione satirica venne portata avanti prima da Orazio, nel 35 a.C., e poi, intorno al 55 d.C., da Persio, autore di 650 esametri sulle problematiche del tempo, i quali si fermarono, però, ad un livello preliminare di denuncia, indice di un’insofferenza tanto lampante quanto incapace di dare una vera e propria svolta ai costumi dell’epoca.
Seguì il satirico per antonomasia: Decimo Giunio Giovenale (per gli amici semplicemente “Giovenale” o anche “Giò” o “Joe”, ma quest’ultimo solo dopo la conquista della Britannia! Pensate se l’ancella, chiamandolo, avesse dovuto dire: “Mio signore, Decimo Giunio Giovenale, la cena è prontaaaaa!!!” si sarebbe tutto freddato! Molto più pratico un: “Ehi Giò! A tavola!”)
Con le sue sedici satire, Giovenale aggiunse alla denuncia una vibrata protesta sociale, smentendo lo stereotipo sapientemente coltivato e propugnato dall’aristocrazia del tempo, secondo cui la ricchezza non era una fortuna, ma un vero e proprio fardello, una disgrazia che aveva colpito gli abbienti del tempo, minando e insidiando la purezza del loro spirito. Beati, dunque, quegli straccioni e pezzenti che sulle loro deperite spalle non avessero dovuto sopportare tale peso!
E il “carico” sostenuto da alcuni fautori della suddetta filosofia non era per nulla indifferente; probabilmente uno di questi, Lucio Anneo Seneca, riusciva a toccarsi gli alluci con la punta del naso, dati i 300'000'000 di sesterzi che gravavano sulla sua schiena! Mentre Catone Uticense giungeva comodamente a sfiorarsi le ginocchia con il mento, se ci basiamo sul suo patrimonio (anche se ben più scarno di quello senechiano!): “solo” 4'000'000 di sesterzi, con una rendita mensile di 18'000 sesterzi (per capirci, lo stipendio di un legionario era di 45 sesterzi al mese!)
In un’epoca di ingente sperequazione socio-economica (sì, perché adesso le cose sono di gran lunga "cambiate", dato che lo stipendio di un alpino, nel primo anno di servizio, è di 850 euro mensili, contro i 13'000 di un parlamentare...), Giovenale volle sfatare questo mito, denunciando come la povertà non fosse affatto un bene e come i ricchi, divenuti tali grazie, probabilmente, a qualche attività illecita, indecorosa e delittuosa (...erano proprio altri tempi...), plagiassero e tenessero buona la plebe, lodandone e “invidiandone” la condizione ben più misera.
Tuttavia, l’indignazione andò a braccetto con l’impotenza, relegando la denuncia di Giovenale alla sola idealizzazione di una società utopistica di stampo ancestrale, priva di disparità; e l’assenza di una coscienza di classe favorì, ovviamente, il fallimento del bramato riscatto sociale, facendo sprofondare le sue ultime satire nella più dolorosa rassegnazione.

Sono passati quasi duemila anni (che non sono proprio noccioline!) dalla redazione dei Saturarum libri, ma ancora oggi, con le dovute distanze (soprattutto intellettuali) di “Seneca” e di “Catone Uticense” il mondo è pieno!
La Satira si è sviluppata e ammodernata, anche se credo continui a perseguire il medesimo fine: ridicolizzare i potenti, smascherarne i vizi, esaltarne i difetti, tentando, attraverso la risata (spesso amara) di invitare lo spettatore, anzi il suddito, alla riflessione.
Nel 2014 non si ha più la scusante dell’assenza di una coscienza sociale e, davanti ai soprusi, l’indignazione e la ribellione (almeno dialettica) sono un diritto, o forse un dovere; poiché, come diceva il vecchio Giò nella Satira V: "Umilia meno battere all’addiaccio i denti, rosicchiare i ripugnanti tozzi di pane gettati ai cani”, che subire le derisioni e le violenze dei potenti; per poi concludere: “E così ve ne state tutti muti, in attesa, col pane pronto, intatto, stretto in pugno. Ha ragione lui [il tiranno] a trattarvi in questo modo. Se puoi sopportare tutto ciò, te lo meriti.”

Come a dire: “Peste colga chi oggi sceglie la via della sottomissione e del più sordido e becero clientelismo!”

venerdì 14 marzo 2014

Frittata di cervelli

Il pifferaio tragico (nuova edizione, vecchio risultato)
La settimana scorsa è cominciata ufficialmente, su Canale 5, la tredicesima edizione del Grande Fratello.
Il programma, dopo un anno di stop, è subito ripartito con punteggi d’ascolto abbastanza rilevanti, toccando, in seconda serata, il 35% di share.
Detto ciò, la mia domanda è la seguente: come fa il Grande Fratello, programma trito e ritrito, dove l’unica novità offerta è data dal ricambio stagionale dei concorrenti, dove non c’è alcun contributo culturale, dove gli inquilini della Casa rappresentano (il più delle volte, per non dire sempre) il peggior stereotipo dell’italiano medio (caratterizzato, a prescindere dal sesso, da un fisico tendenzialmente tonico e palestrato, da una gestione claudicante e confusa della lingua e della sintassi italiana e da un livello di “tamarraggine” in grado di far impallidire il più burino dei “lampadati”) ad avere ancora così tanto successo?
La risposta che mi sono dato tocca tre punti:
  • in primo luogo, la curiosità: “So perfettamente che sarebbe molto meglio afferrare (schifato) il telecomando e premere il tasto off per terminare questa lobotomizzante agonia televisiva, dedicandomi piuttosto alla lettura di un buon libro o di un buon quotidiano; ma voglio rimanere sintonizzato per sentire cos’ha da dire quel tizio nerboruto con cinque piercing e un “I love liberty” tatuato sull’avambraccio… Forse, dato che l’abito non fa il monaco, mi sbalordisce con un’arguta considerazione sullo sfacelo socio-culturale che stiamo vivendo… O, ancora meglio, inizia ad insultare il suo compagno d’avventura, dandogli del "coglione", e magari ci scappa anche qualche spintone e qualche schiaffo!”;
  • in secondo luogo, l’attrazione visiva. “Ragazza tutta curve, bocca carnosa, occhi di ghiaccio, capelli morbidi come la seta che sculetta e starnazza… So che è l’ennesima mercificazione della donna in TV, che non bisogna fermarsi all’aspetto fisico, che la bellezza non è tutto e sarebbe bene pigiare quel benedetto tasto off del telecomando per manifestare, nel mio piccolo, un seppur minimo dissenso… Ma, d’altra parte, guarda che culo che c’ha questa!!!”;
  • in terzo luogo, il dileggio: “I concorrenti non sanno esprimersi, usano vocaboli a caso, magari forzatamente ricercati, sperando forse di impressionare il pubblico (ed effettivamente certe uscite fanno abbastanza impressione…), non sembrano conoscere l’esistenza del congiuntivo e lanciano acuti strilli ogniqualvolta, dalla Casa, vedono inquadrato qualche parente in studio (se poi l’accoppiata è madre-figlia, abbassate il volume al minimo oppure mettete in salvo la cristalleria!)… E vedendo il trionfo dell’ignoranza e della superficialità, mi compiaccio delle quattro cose che so, considerandomi un genietto e commiserando, all’ombra di un ghigno sardonico e saccente, quei poveri dementi. Il loro analfabetismo nutre la mia autostima, nonostante al mondo ci siano cinque miliardi di persone migliori di me… Ma al momento siamo io, il televisore e un buzzurro che mostra il bicipite e dice: “A me la palestra mi fa bene! Penso che è intransigente e penso che mi da (lui l'avrebbe scritto così, senza accento) gioia!”, e in questo momento quei 5 miliardi di persone non mi interessano.”
Ecco, dunque, perché programmi come il Grande Fratello, come Uomini e Donne, come Avanti un altro, come Pomeriggio Cinque hanno tanto successo rispetto ad altre trasmissioni molto più formative e utili come Tv Talk, come Per un pugno di libri, come Sostiene Bollani, come Le storie – Diario italiano o come Passe-partout (delle quali, le ultime due sono state cancellate).
Lo spettatore non ha più voglia di imparare, perché imparare è piacevole ma faticoso; quindi preferisce rimanere a sguazzare nella sua ignoranza, lasciando che pian piano il cervello si atrofizzi, divenendo una poltiglia grigiastra, facile da manipolare e controllare.
Tanto, alla fine, ci saranno sempre dei concorrenti del Grande Fratello che lo faranno sentire intellettualmente superiore ed appagato.
Sempre che questi concorrenti scampino alla nomination! Perché, una volta eliminati, anche lo spettatore dovrà tornare a fare i conti con la realtà…

E lì non c’è televoto che tenga.

martedì 11 marzo 2014

La grande monnezza

Jep Gambardella, il protagonista interpretato da Toni Servillo
È trascorsa una settimana dalla cerimonia degli Academy Awards e vorrei spendere la mia prima considerazione, già accennata sul mio profilo Facebook, circa il recente Premio Oscar La grande bellezza.
Al termine del film ho sentito vari commenti: “Mi aspettavo qualcosa di diverso...”, “Mi aspettavo una critica sociale più feroce...”, “Mi aspettavo un film meno lento...”, “Mi aspettavo maggiori panoramiche su Roma...”, “Mi aspettavo ancora più tette e culi cui facevano, da contraltare, ancora più moralismi e riflessioni...”, eccetera...
Alla luce di ciò, nonostante questo film non abbia certo l’impatto emotivo di un Mediterraneo di Salvatores o di un La vita è bella di Benigni (entrambi assolutamente da vedere!), credo che Sorrentino sia riuscito a dare un tono cinematografico vacuo (nella migliore accezione del termine) ad un ambiente sociale e ad una categoria umana altrettanto vacua (nella peggiore accezione del termine), rappresentando straordinariamente, attraverso la lentezza delle scene e la ricercata superficialità dei dialoghi, proprio quel rumoroso silenzio o quel silenzioso cicaleccio tipico della mondanità borghese.
Uno spazio frivolo e capriccioso, dove tutto risulta essere ovattato; e lo stridente contrasto con la grandezza artistica di Roma antica rende questo spazio fatto di balli, vizi, parolacce e Raffaella Carrà, ancora più misero e volubile.
Il film mi ha impressionato anche perché è costantemente pervaso da una fortissima malinconia, quasi come se i personaggi si rendessero conto della grande bellezza culturale che li circonda e, al contempo, dell’infinita e sciocca monnezza in cui si ritrovano dal punto di vista etico e sociale.
Tanti sconfitti che cercano di insonorizzare e coprire il rimbombo della storia attraverso le feste e i fasti.
Una mia amica ha aggiunto un suo pensiero, affermando che: “L'unica cosa che è mancata nel film è rappresentare quella stessa monnezza in cui si trovano e in cui vogliono anche stare altri strati sociali... Più bassi e altrettanto vuoti...” e mi trovo in completo accordo con lei.
Sorrentino ha voluto rappresentare solo la cosiddetta “Roma bene”, fatta di intellettuali cinici, imprenditori senza scrupoli, aspiranti artisti con “le spalle finanziariamente coperte” e quindi in grado di poter giocare con i propri sogni e con i propri vizi senza ripercussioni troppo gravi sul portafoglio... Insomma, in una parola, gli abbienti.
Ma non dimentichiamo che, in Italia, ci sono persone meno abbienti, per non dire povere, che scelgono il finanziamento, il prestito e, di conseguenza, il debito per poter soddisfare i propri capricci, sottovalutando l’inevitabile contraccolpo economico.
Citando un verso della canzone L’italiano medio degli Articolo 31 (“Quest’anno ho avuto fame, ma per due settimane ho fatto il ricco a Porto Cervo! Che bello!!”), concordo sul fatto che anche gli strati sociali “più bassi” si siano adattati, o cerchino di adattarsi sempre di più a questa grande monnezza, scambiandola per la grande bellezza e alimentando, così, un deleterio processo di lenta autodistruzione.

In conclusione, sono in disaccordo con i detrattori de La grande bellezza di Sorrentino e penso che l’Oscar ricevuto da questo film sia tutt'altro che scandaloso. Ciò che mi scandalizza e che mi preoccupa è la motivazione che potrebbe aver spinto i giurati a premiarlo; vale a dire la perfetta raffigurazione di ciò che è oggi l’Italia: un "paesotto" frivolo, futile, vacuo dove le vere macerie non si trovano nelle arene o negli anfiteatri.


(La strada per l’inferno è lastricata di buoni) Propositi

Eccomi, anzi eccoci!!

Apre ufficialmente i battenti “Il Meteorologo”, un nuovo blog nel quale mi impegnerò a dar voce a pensieri e a idee, sia attraverso parole che attraverso immagini (e spesso e volentieri anche attraverso immagini con parole... Tanto per puntualizzare...).
Il progetto del “Meteorologo” è quello di trattare, talvolta in forma satirica e faceta, talaltra in forma più seria e riflessiva, temi di attualità che, bene o male, coinvolgono e condizionano la nostra quotidianità.
L’obiettivo è quello di poter confrontarmi e interagire con i lettori (sperando che questa categoria non si limiti alla cerchia dei miei consanguinei...), ricevendo giudizi, critiche e osservazioni che possano favorire il pluralismo e lo sviluppo dell’argomento trattato.
E come il comune meteorologo non sempre azzecca le previsioni, annunciando domeniche di sole cocente, per poi scoprire che probabilmente con “sole cocente” intendeva “sole cocente, coperto però da nuvoloni color pece carichi di grandine”, anch'io potrei “sbagliare” le mie previsioni o comunque trovare, nella coscienza e conoscenza dei lettori, antitesi e dissensi che, se ben articolati, possono solo giovare al confronto.

Detto ciò, bando alle ciance! Anzi che le ciance (ma solo quelle utili) abbiano inizio!

Buona lettura!!