Il 25 marzo è il Dantedì, la data che i dantisti riconoscono come l'inizio del viaggio compiuto dal sommo poeta nell'aldilà, descritto nella Divina Commedia.
Attorno alla figura di Dante e ai suoi testi hanno gravitato e gravitano tutt’oggi numerosi autori e intellettuali che, fin dal XIV secolo, hanno fatto sentire la propria voce, confrontandosi non solo sulla Commedia ma anche su molti altri scritti del rimatore e prosatore fiorentino.
Ricollegandosi alla teoria cortigiana, per la promozione di una lingua mista, ‘italiana’ e comprensibile anche fuori di Firenze, la corrente italianista si oppone a quella tosco-fiorentina trecentesca (per una lingua che ricalchi puramente il volgare di Dante, Petrarca e Boccaccio, di duecento anni precedente) e a quella cinquecentesca (per una lingua che sposi, in tutto e per tutto, il fiorentino dell'epoca).
Nel 1529, infatti, Trissino traduce il De vulgari eloquentia (di cui aveva ritrovato un manoscritto intorno al 1513): trattato incompiuto, redatto da Dante in latino tra il 1302 e il 1305, in cui vengono illustrate quali sono e quali dovrebbero essere le qualità della lingua volgare, decretata superiore rispetto a quella latina.
“Ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la questione della lingua (ndr. quella cinquecentesca non fu, infatti, l'unica “questione della lingua” scatenatasi in Italia), significa che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l’egemonia culturale”, scriverà quattro secoli dopo Antonio Gramsci nei suoi Quaderni del carcere (1^ ed. 1948).
Tornando al XVI secolo, immaginatevi dunque diverse fazioni che (dialetticamente) si scannano per il primato della lingua; finché, alle Prose della volgar lingua redatte dal filo-trecentista Pietro Bembo, risponde, sfilando l'asso dalla manica, il vicentino Gian Giorgio Trissino, che mette sul tavolo un’opera del padre della lingua italiana su cui modella la sua tesi italianista!
Ovviamente, nell’ambiente culturale del tempo, non mancarono i dubbi riguardanti la paternità dantesca del De vulgari eloquentia, dato che Trissino non fornì mai la copia in latino che tradusse in volgare. Tuttavia, alcune prove piuttosto inconfutabili darebbero ragione all’umanista berico, con buona pace di diversi suoi detrattori. Tra questi spicca Niccolò Machiavelli, difensore di quel volgare fiorentino cinquecentesco che considerava superiore sia al fiorentino trecentesco (promosso da Sannazaro e dal sopraccitato Bembo) sia alla lingua italianista, mista e cortigiana (caldeggiata da Trissino e da altri letterati come Equicola, Castiglione e Calmeta).Concludendo, nell’interpretazione di Trissino non mancano alcuni fraintendimenti circa il messaggio e i concetti espressi da Dante; è però innegabile il ruolo determinante che questo studioso svolse nella riscoperta di un’opera straordinariamente interessante per capire non solo lo sviluppo della poetica dantesca, in relazione ad altre opere del sommo poeta (dal Convivio alla Commedia stessa), ma anche dell’intera lingua italiana.
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