venerdì 9 aprile 2021

Baudelaire e "Lo spleen di Parigi": poemetti in prosa tra onirico e reale

Charles Baudelaire, di cui oggi ricorre il 200° anniversario della nascita, non ha certo bisogno di presentazioni. Poeta irrequieto, tediato, angosciato, annebbiato dai fumi dell’alcol e della droga, eppure così lucido nell’interpretare, spesso allegoricamente, la realtà che lo circonda. In un aggettivo (caro al suo collega Paul Verlaine) “maledetto”.

Tutti conoscono Baudelaire per i suoi Fiori del male: il canzoniere dai temi scabrosi, condannato nella Francia dominata dalla borghesia benpensante del Secondo Impero. Ma forse non tutti hanno presente la sua “trasposizione prosastica”: i Poemetti in prosa, per l’appunto, editi anche come Lo spleen di Parigi.

Spleen è una parola inglese, derivante dal latino splen, cioè la milza che, secondo le teorie mediche del mondo classico, era la sede dell’umor nero o bile nera, responsabile della melanconia e identificabile, nell'Ottocento, con il tedio e con l’insoddisfazione esistenziale.

Attraverso i cinquanta testi che compongono l’opera (pubblicata postuma nel 1869), Baudelaire intende affondare il pennino nelle viscere della metropoli che gli diede i natali, producendo - come dichiarato nel prologo rivolto al poeta Arsène Houssaye - “una prosa poetica, musicale, senza ritmo e senza rima, duttile e malleabile abbastanza per adattarsi ai movimenti lirici dell'anima, agli ondeggiamenti della fantasticheria, ai sussulti della coscienza”.

Gustave Caillebotte,
Strada di Parigi in un giorno di pioggia, 1877
In una mescolanza di onirico e reale, sono numerosi e ancora attualissimi i temi che condiscono questa raccolta all'insegna del simbolismo e della denuncia sociale nei confronti di Parigi, dei parigini e, allargando il compasso del suo j'accuse, dell’uomo. 

Nell’Ottocento, la città transalpina è la “capitale del XIX secolo”, epicentro della modernità, brulicante e caotica con i suoi boulevards gremiti dove utilitarismo, produttività e denaro trionfano, relegando la figura del poeta a quella di un esule in patria.

Vizi, ipocrisie, miserie morali e viltà emergono nell’aspra condanna di Baudelaire, “antirousseauiano - come afferma il critico Giovanni Macchia - in quanto poco fiducioso nella bontà della natura e convinto dell'eterna e incorreggibile barbarie dell'uomo”; ma a sprazzi anche solidale, fraterno nel suggerire una via di fuga dallo spleen, dal tedio, come accade nel XXXIII brano intitolato Ubriacatevi!

Terminate le cinquanta prose, l’epilogo, tuttavia, non poteva che essere affidato a una poesia, mediante la quale Baudelaire verseggia tutto il suo disagio e la sua angoscia, ma anche la sua passione e la sua attrazione. Un componimento quest’ultimo che, per dirla con Catullo, sintetizza liricamente l’odi et amo dell’autore parigino per la sua città:

Qui il testo originale della poesia.
A fianco, la traduzione di Ivo Senesi in
Poemetti in Prosa, EFA, Milano, 1945
Col cuore contento sono salito sopra il monte

Dal quale si contempla tutta la mia città,

Ergastolo, ospedale, inferno e lupanare,

Dove ogni enormità fiorisce come un fiore.

Satana, tu lo sai, patrono dell'angoscia,

Che non salivo là per spander vane lacrime;

Ma come un vecchio preso d’una sua vecchia amante,

Volevo inebriarmi della grande sgualdrina

La cui grazia infernale mi sa ringiovanire.

O tu che dorma ancora nei drappi del mattino,

Pesante, oscura, raffreddata, o che ti pavoneggi

Nei veli della sera guarniti d'oro fino,

Io t'amo, o capitale infame! Cortigiane

E banditi sovente v’offrono quei piaceri

Che non sanno comprendere i volgari profani. 

 

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