domenica 21 febbraio 2021

Quando nacque la lingua italiana?


Il 21 febbraio ricorre la Giornata Mondiale della Lingua Madre, istituita dall’UNESCO nel 1999 con l’obiettivo di difendere e preservare le diversità linguistiche.

Oggi si celebra dunque anche la lingua italiana, meraviglioso idioma (ma io sono di parte!) del ceppo romanzo, utilizzato per la realizzazione di alcuni dei principali capolavori della letteratura internazionale. Lingua amata e studiata in tutto il mondo, ma anche criticata e snobbata, involontaria protagonista della diatriba legata al primato delle lingue in Europa che infiammò la seconda metà del Seicento e che portò il gesuita e grammatico francese Dominique Bouhours ad "accusare" gli italiani di eccessiva tendenza alla sdolcinatezza poetica e di troppa libertà sintattica.

Ma lasciando perdere le osservazioni di padre Bouhours (cui peraltro controbatterono alcuni intellettuali italiani come Gian Gioseffo Orsi, Ludovico Antonio Muratori e Anton Maria Salvini), dove e quando nacque la lingua italiana?

Premesso che l'italiano rappresenta lo sviluppo, come tutte le lingue romanze o neolatine, del latino (e più specificamente del latino "volgare", quindi non del latino "classico" impiegato dai grandi della letteratura romana, bensì del latino parlato dall'oste, dal macellaio, dal carrettiere eccetera...) e premesso che potremmo affermare che l'italiano è il latino che oggi viene scritto e parlato in Italia, la nostra lingua (secondo gli studi più recenti e accreditati) nacque convenzionalmente nel 960 d.C. con il cosiddetto Placito Capuano.

Il Placito Capuano del 960 d.C.

Per placito si intende quel documento che, nel Medioevo, conservava il testo di un atto giudiziario: dalla narrazione del caso, alle deposizioni delle parti in causa e dei testimoni, per giungere infine alla sentenza del giudice.

Nonostante fosse stato redatto nel X secolo, il Placito Capuano venne scoperto solo nel XVIII secolo, ed ebbe risonanza ancor più tardi, nel XX secolo. In esso c'è la piena coscienza da parte dell'autore riguardo alla separazione tra il latino notarile (usato per stendere gli atti ufficiali) e il volgare parlato (impiegato per annotare le dichiarazioni di attori, convenuti e testimoni). Il Placito Capuano è quindi un verbale notarile, scritto su un foglio di pergamena, relativo a una causa discussa di fronte al giudice capuano Arechisi (da qui la connotazione topografica) che risolse la diatriba tra Aligerno, abate del monastero di Montecassino, e un tal Rodelgrimo di Aquino. 

Rodelgrimo rivendicava, in lite giudiziaria, il possesso di certe terre, a suo dire abusivamente occupate del monastero di Montecassino. L’abate Aligerno, per contro, invocava il diritto che oggi definiamo di usucapione, per il quale i coloni dell'ecclesiastico avevano coltivato per trent'anni le suddette terre senza alcuna interferenza da parte dell'effettivo proprietario.

Nel giorno dell'udienza, tre testimoni (tre frati del monastero: Mari, Teodemondo e Gariperto) recitarono la formula testimoniale con la quale davano (ovviamente) ragione all'abate, favorendone la vittoria sulla controparte.

La testimonianza di Gariperto

In particolare, si fa rifermento alla testimonianza di Gariperto, chierico e notaio, il quale tenens in manum memoratam abbreviaturam et tetigit eam cum alia manu, et textificando dixit (tenendo in mano la summenzionata memoria la toccò con l’altra mano, e rendendo testimonianza disse): «(1) Sao ke kelle terre (2) per kelle fini que ki contene (3) trenta anni le possette (4) parte Sancti Benedicti» («So che quelle terre, all’interno di quei confini che qui si contengono, le possedette per trent’anni il monastero di San Benedetto»).

Tutto il virgolettato che precede "Sancti Benedicti" è in lingua volgare campana, parlata nel X secolo nei pressi di Montecassino (oggi in provincia di Frosinone).

D'ordine del giudice, fu redatto un verbale da parte del notaio Atenolfo che incluse vere e proprie formule testimoniali volgari affiancate da tre frasi in latino (più comuni e tipiche degli atti giudiziari).

Immaginatevi il povero Atenolfo, abile scriba e profondo conoscitore del latino, istruito grazie alle letture dei vari Terenzio, Cicerone, Virgilio, Orazio, catapultato in un vero e proprio ginepraio linguistico, costretto a trascrivere una lingua di cui non conosceva le regole fonetiche e fonologiche, e quindi a improvvisare e a inventare parole che sonoramente gli parevano avvicinarsi maggiormente ai termini latini conosciuti: una "tortura" che emerge dalle esplicite incongruenze testuali, come il ke e il que scritti in modo differente pur rappresentando entrambi l'attuale che.

L'encomiabile sforzo di Atenolfo potrebbe essere paragonato all'odierna trascrizione di parlate dialettali: magari oggi potremmo essere in grado di annotare correttamente alcune parole in vernacolo, ma è molto probabile che non saremmo capaci di riportare perfettamente tutti i lemmi pronunciati da un dialettofono.

Essendo formule prestabilite, le testimonianze del Placito non sono in tutto e per tutto un frammento naturale di lingua parlata, ma sono già assoggettate a una certa formalizzazione. La formula del Placito non è isolata, collocandosi infatti nella serie di quelli che si è soliti definire i Placiti Campani o Cassinesi.

Il Placito Capuano è dunque il primo testo in volgare italiano, in quanto è presente l’intenzionalità dello scrivente (ben conscio di aver cambiato codice linguistico, dal latino al volgare campano) e la casualità della conservazione del documento, "sopravvissuto" alle intemperie della storia: elementi che identificano tale reperto come la più antica testimonianza di volgare italiano “consapevole”, nonché come l'atto di nascita della nostra affascinante lingua.


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