lunedì 20 novembre 2023

Ennio Flaiano, il satiro malinconico

«Io credo soltanto nella parola. La parola ferisce, la parola convince, la parola placa. Questo per me è il senso dello scrivere».

Questa vera e propria dichiarazione di fede e di amore verso la parola è una delle tante frasi che costellano l’universo aforistico di Ennio Flaiano, di cui oggi ricorre il 51° anniversario della morte.

Giornalista, scrittore e sceneggiatore, Flaiano esprime, nella propria produzione letteraria, il declino della cultura moderna. Intingendo la penna nel sarcasmo, nel grottesco, nella caricatura, racconta la società italiana di metà Novecento, dimostrandosi particolarmente critico verso il mondo borghese.

Ironico e pungente, fa della satira, specialmente sociale, il genere letterario attraverso il quale manifesta, con una certa amarezza, il suo estro brillante, traducendolo in romanzi (con Tempo di uccidere vinse la prima edizione del premio Strega nel 1947) e in sceneggiature (quella di Guardie e ladri, per la regia di Monicelli e Steno, gli valse il premio al festival di Cannes del 1952).

Ne Il satiro e la satira, saggio di Egidio Delli Rocili dedicato all’amicizia tra l’incisore satirico Mino Maccari e lo stesso Flaiano (Arnaud, 1988), l’autore sottolinea come la satira di Flaiano lasci il segno e si mostri ricca, varia, imprevedibile, eppure venata di una sottile malinconia: una sorta di “spleen” che caratterizza tutta la produzione dello scrittore pescarese.

Nel 1973, un anno dopo la morte di Flaiano, viene pubblicata La solitudine del satiro (Rizzoli, 1973): riflessioni, aneddoti, ricordi di un cronista disincantato che osserva la decadenza di Roma e dell’intero Paese, smascherandone le contraddizioni. Un po’ come quando si vede il proprio compagno di giochi nascosto dietro le tende del salotto: gli spuntano i piedi ed è giunto il momento di farglielo notare.

Il “game over” di Flaiano si sintetizza nel frammento seguente, tratto proprio da quest’ultima opera postuma; un epigramma che, riletto oggi nell’era dei social network, appare come un iceberg di cui, cinquant’anni fa, si vedeva solo la punta: «Mai epoca fu come questa favorevole ai narcisi e agli esibizionisti. Dove sono i santi? Dovremo accontentarci di morire in odore di pubblicità».


mercoledì 21 giugno 2023

Risus quoque vitast: l'editoria di Formíggini, "in questo mondo di cani ringhiosi"


Mi capita tra le mani un libro logoro e acciaccato. Il tempo grava visibilmente sulla copertina strappata, sul dorso polveroso, sulle pagine ingiallite che faticano a stare ancora insieme.

È un’antologia dedicata al poeta Carlo Porta, edita nel 1913; ma ciò che mi colpisce è la collana di appartenenza: Classici del ridere.

“Classici del ridere?”

Con la pigrizia del pollice che scorre mollemente sul display del telefono, cerco, tra un’informazione e l’altra, qualche notizia in più sull’editore, A.F.F.

L’attenzione indolente si fa curiosità quasi morbosa quando leggo di un uomo che nel novembre del 1938 spiccò il volo dalla torre Ghirlandina, a Modena, urlando “Italia! Italia! Italia!” e scrivendo inesorabilmente la parola “Fine” nel libro della propria vita. È un epilogo tanto doloroso quanto sensazionale che termina 60 anni di prestigiosi successi e frustranti insuccessi, di immense gioie e profonde delusioni.

E pare che proprio dalla più cocente di queste ultime fosse nata, nel protagonista, la volontà di giungere a una conclusione estrema, dimostrativa, per lasciare il segno nella storia dell’Italia fascista, sprofondata nel baratro delle leggi razziali.

C’è un’opera dello scrittore e attore contemporaneo Moni Ovadia che si intitola L’ebreo che ride. Ma, prima di lui, di Ovadia dico, ci fu un altro ebreo che, nel solco della migliore tradizione yddish, utilizzò la risata e l’umorismo a mo’ di bussola per orientarsi nella vita: fu proprio l’uomo della Ghirlandina, l’editore Angelo Fortunato Formíggini.

Modenese di sette cotte, e perciò italiano sette volte” come diceva di sé, Formíggini fu un giurista (si laureò, nel 1901, con una tesi intitolata La donna nella Thorà in raffronto con il Manava-Dharma-Sastra: contributo storico giuridico ad un riavvicinamento tra la razza ariana e la semita) e un filosofo (si laureò nuovamente, nel 1907, con un’altra tesi intitolata Filosofia del ridere).

Nel 1908, in barba alla formazione forense, decise di fondare la casa editrice A.F.F., il cui motto, che campeggiava sul logo impresso nelle copertine, era Amor et labor vitast (amore e lavoro sono vita).

A questo “slogan” si accostava una puntualizzazione, spesso inserita all’interno dei suoi libri: Risus quoque vitast, anche la risata è vita! Come, infatti, scrisse: “Nulla è più umano del ridere, nulla è più fautore di affratellamento in questo mondo di cani ringhiosi”.

Tra gli zampilli che esplosero da questo vulcano di idee e di progetti editoriali, emerge proprio la collana Classici del ridere, cui appartiene anche l’antologia sul Porta: 105 opere, pubblicate tra il 1913 e il 1938, scelte dall’editore per il loro carattere umoristico al fine di divertire, ma anche di favorire, mediante la risata, la riflessione dei lettori su temi spinosi o licenziosi. Una scintilla di buon umore in un’epoca, tra la Grande Guerra e la dittatura fascista, tutt’altro che luminosa. 

La collana è popolata di mostri sacri della letteratura: da Petronio e Apuleio a Oscar Wilde e Trilussa, passando per Boccaccio e Rabelais o per autori insospettabili (umoristicamente parlando) come Edgar Allan Poe e Victor Hugo.

Ne scrivo oggi, in occasione del 145° anniversario della sua nascita, per accendere la luce sulla vita di Formíggini, una vera e propria avventura tutta da riscoprire! Al netto dei toni più scuri e più chiari che colorano l’esperienza di ciascun individuo, Formíggini fu indubbiamente un intellettuale brillante, tanto celebre e influente a inizio Novecento quanto dimenticato e taciuto dopo il suicidio: un gesto che incarnò la delusione straziante verso la discriminazione razziale e verso quel partito fascista che, in un primo momento, lo stesso editore aveva appoggiato.
Una dittatura dalla quale si scostò e della quale, in aperta polemica con il filosofo del regime Giovanni Gentile, si burlò nel saggio La ficozza filosofica del fascismo. “Ficozza”, in romanesco, significa “bernoccolo” e, per Formíggini, Gentile fu proprio il “bernoccolo” del regime, la protuberanza patologica che contribuì a rendere il fascismo quel totalitarismo disumano che tutti (o quasi) conosciamo e riconosciamo.

Editorialmente, rispetto ad altri colleghi come Mondadori e Rizzoli (solo per citare un paio di suoi colleghi coevi), Formíggini fu un vero e proprio sognatore, divertente e divertito. Uno dei meno noiosi uomini del suo tempo (come recita un'epigrafe a Modena, da lui stesso predisposta) che volle investire sul bello, sullo spiritoso e soprattutto sull'utile socio-culturale prima ancora che sull’utile economico.

Un imprenditore di cui anche oggi, vedendo certe pubblicazioni di case editrici rinomate e di spessore, attente più alla celebrità degli autori che alla qualità dei contenuti, avremmo ancora dannatamente bisogno: Risus adhuc vitast (la risata è ancora vita). 


Per un approfondimento su Angelo Fortunato Formíggini: Libri da ridere di A. Castronuovo, Stampa Alternativa, 2005

domenica 23 aprile 2023

L'evoluzione del libro: da Sardanapalo agli eBook, passando per Eraclito


Oggi è la giornata mondiale del libro e del diritto d’autore!

Nel British Museum di Londra, alcuni scaffali ospitano numerosissime tavolette di argilla tempestate di grafemi cuneiformi: è la cosiddetta biblioteca del re assiro Sardanapalo, “the first library to contain all knowledge”. Ed è proprio il caso di dire: "Il peso della conoscenza!"

L'evoluzione della'editoria ha “alleggerito” questo peso, passando dalle tavolette di argilla ai papiri, cioè alla carta.

A tal proposito, nella sua opera intitolata proprio “PAPYRUS. L’INFINITO IN UN GIUNCO. La grande avventura del libro nel mondo antico” (Bompiani, 2021), l’autrice Irene Vallejo dedica un capitolo a quello che sembra essere il primo libro dell’antichità europea.


La ricerca della filologa spagnola porta a Eraclito che, tra il VI e il V secolo a.C., depositò una copia della sua opera “Sulla natura” (sotto forma di papiro) nel tempio di Artemide, a Efeso.

Nel testo, che si caratterizza per il contenuto oscuro ed enigmatico, emergono le tesi del filosofo greco e la tensione che scaturisce dalle contraddizioni della realtà, evidenziando come l'alterazione degli equilibri possa essere determinante per i cambiamenti del mondo e della vita.

Apparentemente al sicuro, quella copia andò distrutta nell’incendio che la notte del 21 luglio del 365 a.C. devastò il santuario dedicato alla dea della caccia. 

Il fuoco venne appiccato da Erostrato, un pastore con un unico obiettivo: essere ricordato nei secoli, a prescindere dal motivo e dal mezzo.

Non essendo in grado di compiere gesta eroiche, Erostrato optò per la distruzione di una delle sette meraviglie del mondo antico. E dato che nel 2023 ne sto ancora scrivendo, pare che tale follia abbia dato i suoi bizzarri frutti!

Irene Vallejo conclude il capitolo con un'amara considerazione sulla fragilità dei #libri e su quanti volumi siano stati inceneriti o danneggiati nel corso della storia.

Alla luce di ciò, qual è il ruolo della digitalizzazione dei testi? Gli eBook possono salvare la conoscenza sopra citata? Riusciremo a rinunciare alla carta così come si rinunciò alle tavolette di argilla?

Penso che quel profumo e quella sensazione delle pagine tra le dita non siano replicabili da un polpastrello che scorre su un display. Tuttavia, la tecnologia può certamente aiutare a tutelarci dagli "Erostrato" di oggi e di domani.

Il resto, prima che da leggere, è tutto da scrivere.