martedì 13 febbraio 2024

"Su la maschera!" Il carnevale e la commedia dell'arte


Semel in anno licet insanire è il vecchio adagio secondo il quale una volta all’anno è lecito impazzire. E quella volta all’anno è proprio il carnevale, con le maschere e i costumi che colorano le fredde (cambiamento climatico permettendo) giornate invernali.

Nonostante la citazione latina fosse divenuta proverbiale e accostata al carnevale solo in epoca medievale, questa momentanea e, in seguito, variopinta “follia” trova le sue radici nell’antica Grecia, durante le celebrazioni dedicate a Dioniso (non a caso il dio delle feste e dell’ebbrezza), quando cortei mascherati sfilavano per le vie delle città.

Salpando dal Pireo, il principale porto ellenico, e solcando il mar Mediterraneo verso Roma, scopriremo, giunti a destinazione, che anche nella città eterna si iniziarono a festeggiare ricorrenze riconducibili a una sorta di carnevale.

Sembra, infatti, che la parola “carnevale” derivi proprio dal latino carnem levare, cioè appunto “togliere la carne”. Ciò sarebbe riconducibile all'inizio del periodo di Quaresima, portando questo evento, tipicamente pagano, a subire, in un certo senso, l'influenza della cultura cristiana.

Con il passare dei secoli, il carnevale divenne sempre più l’occasione per canzonare non solo l’autorità religiosa, ma anche (e forse soprattutto) quella politica, deridendo il potere, schernendolo e screditandolo.

Durante il Medioevo, la “follia” carnevalesca imperversava nelle corti europee con travestimenti bizzarri e goliardici che talvolta richiamavano gli antichi costumi per così dire “civili” degli antenati e talaltra rievocavano quelli accostabili alla mitologia greco-romana.

Tuttavia, pensando al carnevale, le prime maschere che balzano alla mente sono quelle di Arlecchino, Pantalone, Colombina, Brighella e molti altri. Personaggi che, oltre a popolare le strade e a troneggiare sui carri allegorici, sono i protagonisti della commedia dell’arte: genere teatrale sorto in Italia nella metà del Cinquecento. Caratteristica di tale commedia era l’improvvisazione dei cosiddetti 'tipi fissi', cioè personaggi come i suddetti Arlecchino, Brighella eccetera che, indossando spesso maschere di cuoio, scambiavano, sulla scena, buffi dialoghi mescolando e intrecciando dialetti e lingue differenti.

Verrebbe quindi da pensare che il teatro del XVI secolo avesse ripreso i personaggi del carnevale per dar vita a rappresentazioni teatrali con maschere già note al pubblico… Tutt’altro! Fu proprio il carnevale che “prese in prestito”, dal mondo dello spettacolo, le celebri figure della commedia dell'arte. Pur non avendo un copione vero e proprio, ma solo un canovaccio (cioè una trama che consentisse di comprendere lo svolgimento dell’azione), commediografi e attori svilupparono e caratterizzarono le maschere, attribuendo a ciascuna di esse virtù (poche) e vizi (tanti) tipici dell’essere umano. Divenute poi famose, tali maschere vennero utilizzate dalla gente comune, a prescindere dal ceto di appartenenza, per camuffarsi e divertirsi nel periodo più pazzo dell'anno.

Da questa caratterizzazione derivano l’astuzia subdola del bergamasco Brighella, la superbia altezzosa del bolognese Balanzone, l’avidità burbera del veneziano Pantalone, la furbizia indolente del napoletano Pulcinella, riprendendo così solo alcuni dei difetti umani volutamente caricaturizzati, per giungere a una loro correzione.

Ed è proprio in questo comico e stravagante ammonimento, realizzato attraverso la beffa e il ridicolo, che si esprime la satira delle maschere: irriverente, audace, iperbolica.

Riprendendo la metafora dello specchio di Jonathan Swift, il carnevale, con le sue maschere, da un lato ci consente di essere, per qualche giorno, qualcun altro, ma, dall’altro, riflette (anche psicologicamente) l’essere umano, finendo col farci capire quanto c’è di esagerato e magari di grottesco in ognuno di noi.


sabato 10 febbraio 2024

Umorismo e lavoro: quel binomio perfetto che spesso "spaventa"

Tra i vari annunci di lavoro che popolano il web mi sono imbattuto nell'inserzione di un’azienda che, segnalando una posizione aperta per il ruolo di graphic designer, chiedeva alla persona candidata di inviarle, oltre ai classici cv e portfolio, «il link di un video che ti ha fatto ridere».

Di primo acchito, la richiesta potrebbe sembrare bizzarra, ma considerando lo spirito e il business della suddetta azienda è tutt’altro che stravagante.

Penso che con tale richiesta (a mio parere utile, a prescindere dal tipo di società) venga anche sottolineato un dato fondamentale: l’importante effetto che l’umorismo può avere negli ambienti di lavoro e nella qualità delle attività, più o meno creative, che ognuno di noi è chiamato a svolgere.

A proposito di umorismo, qualche tempo fa ho casualmente sfogliato un’antologia di italiano per le scuole, in cui il primo modulo era intitolato “Pagine d’umorismo”.

Perché questa scelta da parte degli autori, di dare un simile spazio e una tale priorità? Perché, come recita un passaggio dell’introduzione al modulo, chi è dotato di umorismo, «mettendosi nei panni dell'uomo comune, sostenuto da una buona dose di intelligenza, [...] riesce a smascherare debolezze e manie, a mostrarne tutta la loro miseria, a ridicolizzarle». In due parole: a capire.

Da qui l’intelligenza di cui sopra, nel senso etimologico del termine (‘intellegere’, comprendere); e da qui l’importanza di promuovere l’umorismo e di “allenarlo”.

Spesso lo spettro dell’equazione ‘umorismo = frivolezza, superficialità’ aleggia nei luoghi di lavoro, come fosse una minaccia pronta a compromettere la qualità delle prestazioni. 

Tuttavia, il pregiudizio è smentito da molti studi, tra cui quello di Chris Robert, professore alla University of Missouri-Columbia e autore di un’analisi su “Research in Personnel and Human Resources Management”.

Robert ha spiegato che «il legame tra umorismo ed emozioni positive sembra forte, il che è intuitivo, e c'è anche una forte correlazione tra emozioni positive e prestazioni sul posto di lavoro», aggiungendo che «chi ha il senso dell'umorismo di solito è più creativo non solo perché è meno ansioso e stressato, ma anche perché sia l'umorismo che la risoluzione di problemi inaspettati richiedono di trovare una connessione tra fatti non in relazione tra loro».

Quest’ultimo dato è confermato da un ulteriore studio condotto qualche anno fa, su un campione di 185 studenti, dagli psicologi americani Daniel Howrigan e Kevin MacDonald, e pubblicato nella rivista “Evolutionary Psychology”. Al termine della ricerca, è emerso che il senso dell’umorismo era più diffuso tra coloro che avevano più indicatori di intelligenza.

Alla luce di ciò, la speranza è che il binomio umorismo/lavoro possa essere incoraggiato e possa trovare sempre più spazio nelle aziende, al fine di migliorare il nostro umore e, di conseguenza, le nostre attività.