Nonostante la citazione latina fosse divenuta proverbiale e accostata al carnevale solo in epoca medievale, questa momentanea e, in seguito, variopinta “follia” trova le sue radici nell’antica Grecia, durante le celebrazioni dedicate a Dioniso (non a caso il dio delle feste e dell’ebbrezza), quando cortei mascherati sfilavano per le vie delle città.
Sembra, infatti, che la parola “carnevale” derivi proprio dal latino carnem levare, cioè appunto “togliere la carne”. Ciò sarebbe riconducibile all'inizio del periodo di Quaresima, portando questo evento, tipicamente pagano, a subire, in un certo senso, l'influenza della cultura cristiana.
Con il passare dei secoli, il carnevale divenne sempre più l’occasione per canzonare non solo l’autorità religiosa, ma anche (e forse soprattutto) quella politica, deridendo il potere, schernendolo e screditandolo.
Durante il Medioevo, la “follia” carnevalesca imperversava nelle corti europee con travestimenti bizzarri e goliardici che talvolta richiamavano gli antichi costumi per così dire “civili” degli antenati e talaltra rievocavano quelli accostabili alla mitologia greco-romana.
Verrebbe quindi da pensare che il teatro del XVI secolo avesse ripreso i personaggi del carnevale per dar vita a rappresentazioni teatrali con maschere già note al pubblico… Tutt’altro! Fu proprio il carnevale che “prese in prestito”, dal mondo dello spettacolo, le celebri figure della commedia dell'arte. Pur non avendo un copione vero e proprio, ma solo un canovaccio (cioè una trama che consentisse di comprendere lo svolgimento dell’azione), commediografi e attori svilupparono e caratterizzarono le maschere, attribuendo a ciascuna di esse virtù (poche) e vizi (tanti) tipici dell’essere umano. Divenute poi famose, tali maschere vennero utilizzate dalla gente comune, a prescindere dal ceto di appartenenza, per camuffarsi e divertirsi nel periodo più pazzo dell'anno.
Da questa caratterizzazione derivano l’astuzia subdola del bergamasco Brighella, la superbia altezzosa del bolognese Balanzone, l’avidità burbera del veneziano Pantalone, la furbizia indolente del napoletano Pulcinella, riprendendo così solo alcuni dei difetti umani volutamente caricaturizzati, per giungere a una loro correzione.Ed è proprio in questo comico e stravagante ammonimento, realizzato attraverso la beffa e il ridicolo, che si esprime la satira delle maschere: irriverente, audace, iperbolica.
Riprendendo la metafora dello specchio di Jonathan Swift, il carnevale, con le sue maschere, da un lato ci consente di essere, per qualche giorno, qualcun altro, ma, dall’altro, riflette (anche psicologicamente) l’essere umano, finendo col farci capire quanto c’è di esagerato e magari di grottesco in ognuno di noi.