Le
gocce precipitavano dal cielo, picchiettando il cortile della scuola.
Tanti “paracadutisti” pronti ad immolarsi per la patria, per
vedere se l’asfalto era diventato davvero così morbido e friabile.
Infatti
bastava gettar l’occhio in un angolo qualsiasi della città per
notare buche e macerie, quasi fosse uno sconfinato scolapasta di
catrame.
Ma
la pioggia, per fortuna, non aveva ancora raggiunto la carica
devastante delle bombe.
A
fissare quei minuscoli “paracadutisti” dalla finestra di un
istituto superiore di Vicenza, nel marzo del ’44, c’era Ettore
Spadin: un diciassettenne alto e magro, dal viso lungo e sottile; gli
occhi vivaci tradivano l’apparente timidezza e la peluria, già
folta sul mento, mascherava la giovane età; la fitta chioma
rossiccia ricordava quella del padre, un minatore emigrato in Belgio.
Costui, infatti, aveva rifiutato la tessera del Partito Nazionale
Fascista ed era stato costretto a fuggire all’estero, mentre la
moglie e il figlio erano rimasti in Italia.
“No,
voi non siete come le bombe...” sussurrò Ettore tra sé e sé,
scrutando la pioggia; ma d’un tratto una voce minacciosa tuonò
dalla cattedra: “Spadin! Concentrati!”
L’ordine
era scaturito dalle labbra del professor Viti, il fascistissimo
docente di matematica, celebre per i metodi rigidi e violenti (da
squadrista qual era).
Ettore
obbedì, affrettandosi ad affondare la vista in un oceano di numeri,
incognite e simboli vari.
Tuttavia,
il suo sguardo nuotò ben poco tra le increspate onde dell’algebra,
tornando presto a galla grazie al salvagente gettatogli da quella
fervida immaginazione che lo contraddistingueva.
Infatti
bastavano un pezzo di carta e una matita per riemergere e spiccare il
volo, oltre quelle pareti, oltre quella città, oltre quell’Italia
lacerata dalla guerra...
Tra
tutte le arti grafiche, però, ce n’era una che prediligeva, con
cui poteva “appendere” il soggetto prescelto al foglio bianco,
per poi stiracchiarlo e stropicciarlo a piacimento, modificandone la
fisionomia, ma riuscendo comunque a conservarne l’essenza, la
somiglianza. In una parola, Ettore era anche un formidabile
caricaturista.
Adorava
trasformare i suoi malcapitati modelli, divertendosi a esasperarne le
caratteristiche fisiche e dilettandosi nell’accentuarne i difetti.
I risultati erano delle maschere tanto spassose quanto grottesche.
Sollevato
lo sguardo dal libro, gli occhi di Ettore furono attratti dalle
grandi orecchie del dispotico Viti, le quali, mai come allora, si
prestavano ad un’incredibile parodia.
Quindi,
afferrato il quaderno di matematica e impugnata la matita, il giovane
artista cominciò a disegnare, alzando di tanto in tanto il capo per
mirare il faccione rotondo dell’insegnante.
La
mina sembrava danzare sul foglio, abbandonando dietro di sé
l’inconfondibile scia grigia.
In
pochi minuti, il viso paffuto di Viti, fiancheggiato da due enormi
orecchie da elefante, sbuffava tra i numeri e le incognite; e come se
non fosse bastato, sopra i pachidermici padiglioni del docente,
Ettore aveva aggiunto anche alcuni piccioni. I volatili se ne stavano
lì, appollaiati, per poi evacuare di tanto in tanto, provocando
l’ira dell’insegnante, incapace di scacciarli nonostante il
manganello agitato forsennatamente.
Infine,
una scritta a piè di pagina completava l’opera: “Caro Viti,
neanche il Duce può salvarti dagli schìti!”
(ovvero, in dialetto vicentino, gli escrementi degli uccelli).
Qualche
istante dopo, il trillo metallico della campanella interruppe la
lezione.
Durante
la ricreazione, Carlo, il compagno di banco di Ettore, notò
l’esilarante caricatura, esplodendo in una sonora risata che attirò
l’attenzione degli altri studenti.
Fortunatamente
il docente era già uscito dall’aula.
Subito,
un nugolo di alunni attorniò l’autore, sbellicandosi alla vista
del disegno, di quelle orecchie abnormi e degli impavidi piccioni.
Inconsciamente,
la caricatura trasmise ai ragazzi l’intima convinzione che, in
fondo, Viti non era un docente inattaccabile, ma un comune essere
umano, carico di difetti e insicurezze. La sua ridicolizzazione
sembrava esorcizzare gran parte dei timori nutriti dai liceali verso
quella figura tirannica e austera.
Quando
il professore, incuriosito dal fragoroso sghignazzamento, tornò in
aula e scoprì lo schizzo di Ettore, reagì con un’aggressiva
ramanzina, conclusa da una violenta sferzata di bacchetta sul capo
del giovane artista.
Ettore
sussultò per il dolore e osservò, impotente, la lacerazione della
sua opera, strappata dal quaderno e ridotta a brandelli.
Dopodiché,
al grido: “E questa è per il Duce!”, un’altra nerbata stava
per abbattersi sul ragazzo; ma all’improvviso, Carlo, rivolgendosi
al professore, urlò: “Fermatevi!”, frapponendosi tra la
bacchetta e il suo compagno di banco.
L’inatteso
gesto di ribellione lasciò il docente di stucco, tanto da fargli
ritrarre la stecca.
La
dura punizione non si fece attendere, ma questo atto eversivo aveva
smosso gli animi e ridestato la classe dal torpore in cui era
sprofondata. Tutto grazie a un’immagine.
In
seguito Ettore, ispirandosi a quel gesto, decise di mettere la sua
arte al servizio della propaganda antifascista, realizzando numerose
caricature dei maggiori esponenti del regime, per poi distribuirle
attraverso un pericoloso volantinaggio illegale.
E
tutte le volte che tracciava il mento del Duce, sorrideva al pensiero
che il sogno di democrazia corresse sull’Italia come la sua matita
sul foglio.