sabato 25 aprile 2015

Una matita contro il regime

Le gocce precipitavano dal cielo, picchiettando il cortile della scuola. Tanti “paracadutisti” pronti ad immolarsi per la patria, per vedere se l’asfalto era diventato davvero così morbido e friabile.
Infatti bastava gettar l’occhio in un angolo qualsiasi della città per notare buche e macerie, quasi fosse uno sconfinato scolapasta di catrame.
Ma la pioggia, per fortuna, non aveva ancora raggiunto la carica devastante delle bombe.
A fissare quei minuscoli “paracadutisti” dalla finestra di un istituto superiore di Vicenza, nel marzo del ’44, c’era Ettore Spadin: un diciassettenne alto e magro, dal viso lungo e sottile; gli occhi vivaci tradivano l’apparente timidezza e la peluria, già folta sul mento, mascherava la giovane età; la fitta chioma rossiccia ricordava quella del padre, un minatore emigrato in Belgio. Costui, infatti, aveva rifiutato la tessera del Partito Nazionale Fascista ed era stato costretto a fuggire all’estero, mentre la moglie e il figlio erano rimasti in Italia.
No, voi non siete come le bombe...” sussurrò Ettore tra sé e sé, scrutando la pioggia; ma d’un tratto una voce minacciosa tuonò dalla cattedra: “Spadin! Concentrati!”
L’ordine era scaturito dalle labbra del professor Viti, il fascistissimo docente di matematica, celebre per i metodi rigidi e violenti (da squadrista qual era).
Ettore obbedì, affrettandosi ad affondare la vista in un oceano di numeri, incognite e simboli vari.
Tuttavia, il suo sguardo nuotò ben poco tra le increspate onde dell’algebra, tornando presto a galla grazie al salvagente gettatogli da quella fervida immaginazione che lo contraddistingueva.
Infatti bastavano un pezzo di carta e una matita per riemergere e spiccare il volo, oltre quelle pareti, oltre quella città, oltre quell’Italia lacerata dalla guerra...
Tra tutte le arti grafiche, però, ce n’era una che prediligeva, con cui poteva “appendere” il soggetto prescelto al foglio bianco, per poi stiracchiarlo e stropicciarlo a piacimento, modificandone la fisionomia, ma riuscendo comunque a conservarne l’essenza, la somiglianza. In una parola, Ettore era anche un formidabile caricaturista.
Adorava trasformare i suoi malcapitati modelli, divertendosi a esasperarne le caratteristiche fisiche e dilettandosi nell’accentuarne i difetti. I risultati erano delle maschere tanto spassose quanto grottesche.
Sollevato lo sguardo dal libro, gli occhi di Ettore furono attratti dalle grandi orecchie del dispotico Viti, le quali, mai come allora, si prestavano ad un’incredibile parodia.
Quindi, afferrato il quaderno di matematica e impugnata la matita, il giovane artista cominciò a disegnare, alzando di tanto in tanto il capo per mirare il faccione rotondo dell’insegnante.
La mina sembrava danzare sul foglio, abbandonando dietro di sé l’inconfondibile scia grigia.
In pochi minuti, il viso paffuto di Viti, fiancheggiato da due enormi orecchie da elefante, sbuffava tra i numeri e le incognite; e come se non fosse bastato, sopra i pachidermici padiglioni del docente, Ettore aveva aggiunto anche alcuni piccioni. I volatili se ne stavano lì, appollaiati, per poi evacuare di tanto in tanto, provocando l’ira dell’insegnante, incapace di scacciarli nonostante il manganello agitato forsennatamente.
Infine, una scritta a piè di pagina completava l’opera: “Caro Viti, neanche il Duce può salvarti dagli schìti!” (ovvero, in dialetto vicentino, gli escrementi degli uccelli).
Qualche istante dopo, il trillo metallico della campanella interruppe la lezione.
Durante la ricreazione, Carlo, il compagno di banco di Ettore, notò l’esilarante caricatura, esplodendo in una sonora risata che attirò l’attenzione degli altri studenti.
Fortunatamente il docente era già uscito dall’aula.
Subito, un nugolo di alunni attorniò l’autore, sbellicandosi alla vista del disegno, di quelle orecchie abnormi e degli impavidi piccioni.
Inconsciamente, la caricatura trasmise ai ragazzi l’intima convinzione che, in fondo, Viti non era un docente inattaccabile, ma un comune essere umano, carico di difetti e insicurezze. La sua ridicolizzazione sembrava esorcizzare gran parte dei timori nutriti dai liceali verso quella figura tirannica e austera.
Quando il professore, incuriosito dal fragoroso sghignazzamento, tornò in aula e scoprì lo schizzo di Ettore, reagì con un’aggressiva ramanzina, conclusa da una violenta sferzata di bacchetta sul capo del giovane artista.
Ettore sussultò per il dolore e osservò, impotente, la lacerazione della sua opera, strappata dal quaderno e ridotta a brandelli.
Dopodiché, al grido: “E questa è per il Duce!”, un’altra nerbata stava per abbattersi sul ragazzo; ma all’improvviso, Carlo, rivolgendosi al professore, urlò: “Fermatevi!”, frapponendosi tra la bacchetta e il suo compagno di banco.
L’inatteso gesto di ribellione lasciò il docente di stucco, tanto da fargli ritrarre la stecca.
La dura punizione non si fece attendere, ma questo atto eversivo aveva smosso gli animi e ridestato la classe dal torpore in cui era sprofondata. Tutto grazie a un’immagine.
In seguito Ettore, ispirandosi a quel gesto, decise di mettere la sua arte al servizio della propaganda antifascista, realizzando numerose caricature dei maggiori esponenti del regime, per poi distribuirle attraverso un pericoloso volantinaggio illegale.

E tutte le volte che tracciava il mento del Duce, sorrideva al pensiero che il sogno di democrazia corresse sull’Italia come la sua matita sul foglio.

lunedì 20 aprile 2015

Settecento formiche

Il formicaio, in fondo al giardino, era insidiato da uno sciame di cavallette che ne minacciava i canali sotterranei, nonché le inquiline. Le formiche, intimorite da quegli insetti famelici e inarrestabili, decisero di migrare verso il lato opposto dell'appezzamento, vicino alla casa del contadino Ubaldo Esti, il proprietario del giardino.
Una ventina di metri le separava da un nuovo fazzoletto di terra su cui costruire un nido teoricamente più sicuro e, almeno momentaneamente, lontano dagli attacchi dei Celiferi.
Venti metri. Un'inezia per Ubaldo, con le sue gambe lunghe come tronchi e le mani grandi come badili; ma una vera e propria odissea per le formiche.
E lui sapeva di quello zillare incessante e ostile che si sarebbe presto trasformato in una distruttiva aggressione al cumulo di terra; però non si era mai preoccupato di intervenire. Troppo impegno e troppo lavoro per salvare un migliaio di formiche. Insetti operosi, non c'è che dire, e di compagnia quando, nei caldi pomeriggi d'estate, il contadino lasciava che gli corressero lungo le dita, tra i fili d'erba. Ma pur sempre formiche.
Esse non gli avevano mai dato problemi, nonostante la preoccupazione della bisbetica moglie, la quale consigliava la creazione di una struttura intorno al loro nido (limitandone inevitabilmente la libertà), affinché si riducesse la possibilità che i piccoli insetti neri entrassero in casa per sottrarre il cibo dalla dispensa. Tuttavia, ciò non era mai accaduto, salvo qualche sporadica sortita delle formiche più temerarie e affamate (puntualmente scoperte e giustiziate dalla signora Esti). Anzi, i minuscoli insetti neri rappresentavano una componente importante dell'ambiente circostante, favorendone l'equilibrio.
Alla fine, una mattina di giugno, le locuste attaccarono il formicaio. Molte delle formiche furono divorate e dilaniate con una violenza inaudita, mentre altre si salvarono e decisero di fuggire da quell'inferno, affrontando il pericoloso viaggio verso il lato opposto del giardino.
Uno scarafaggio si era offerto di condurre gli imenotteri verso l'agognata meta, in cambio delle provviste risparmiate dall'offensiva delle cavallette.
A malincuore le formiche accettarono la proposta, affidandosi alla guida di quel viscido bacherozzo.
Le sopravvissute all'assalto erano circa settecento. Avevano perso tutto: il loro nido, le loro larve e le loro risorse, consegnate alla blatta come compenso per il viaggio.
La traversata del giardino cominciò qualche mattina dopo il secondo attacco delle locuste. Quel giorno, però, il cielo iniziò a rannuvolarsi e nubi scure come gli insetti si addensarono sopra l'appezzamento. Un tuono convinse il contadino ad affacciarsi alla finestra della cucina, notando, tra il fremere dei ciuffi d'erba, quell'insolita processione.
Ubaldo capì che le formiche stavano migrando, alla ricerca di un punto più sicuro sul quale generare la loro nuova base; e un misto di tenerezza e orgoglio gli attraversò il cuore e la mente, con il desiderio di agevolare quella loro fuga dalla distruzione della cavallette. Ma le prime gocce che si abbatterono sul tetto e sul campo lo scoraggiarono; così, chiuse i balconi su quel cammino di speranza, per poi dirigersi verso le altre stanze dell'abitazione a serrare gli ultimi battenti.
In pochi minuti, i nembi sprigionarono un violento acquazzone che inondò il giardino, travolgendo le formiche e trascinandone la maggior parte verso lo scolo, mentre lo scarafaggio riuscì ad appigliarsi saldamente ad un tarassaco, evitando di sprofondare tra l'acqua e il fango assieme agli altri imenotteri.

Quando il temporale cessò, il contadino uscì di casa e vide, sotto la finestra della cucina, solo una decina di formiche, fradice e intontite. E mentre avvicinava l'indice a quegli insetti neri e inzuppati, con la speranza che si aggrappassero all'unghia com'erano soliti fare, udì la moglie che, con tono sardonico, gli disse: “Se avessi costruito quella struttura come ti avevo suggerito, tutto questo non sarebbe accaduto (ma almeno ora il cibo nella dispensa è al sicuro).”